Rancid
Let's Go
Per realizzare il loro secondo album, i Rancid inseriscono nella loro line up un altro componente. Si tratta del chitarrista-cantante Lars Frederiksen, che senz’altro contribuirà notevolmente alla maturazione artistica del gruppo di Berkeley e a confezionare intrecci sonori (relativamente) più complessi. Let’s Go mostra un gruppo più sicuro delle proprie potenzialità: l’album, che vanta una track list di ben ventitrè canzoni, si apre con Nihilism, brano di disinvolta cattiveria punk rock, di autodistruttivo compiacimento à la Sex Pistols, basato su un formidabile duetto Armstrong-Frederiksen che diventerà un leitmotiv delle successive produzioni.
Dal precedente “Rancid”, comunque, poco è cambiato: canzoni semplici, immediate che costruiscono la loro fortuna su degli impeccabili ritornelli epici alla Clash: Radio è praticamente una dichiarazione d’amore per lo storico gruppo londinese (basti citare questi due versi della canzone: “Radio clash,/ magnificent 7”).
Tutte le altre canzoni si discostano di poco da questa formula vincente: Salvation e Tenderloin, una di seguito all’altra, spingono ulteriormente sull’acceleratore anche se il suono si fa più pulito rispetto al precedente, omonimo, album. Ne sono testimonianza anche Gunshot, che come Tenderloin è una presa in giro dei problemi adolescenziali, Gave it away e Harry Bridges, quest’ultima una delle composizioni più interessanti sia per testo che per musica. Si tratta infatti di una delle canzoni più melodiche con una partenza quasi timida, ma che poi esplode in un riuscitissimo ritornello da far invidia allo stesso Joe Strummer.
Il testo riguarda uno sciopero generale nel quale è coinvolto anche l’operaio Harry. Ma il ragazzo pagherà a caro prezzo questa sua partecipazione: la General Motors lo licenzia in tronco e, senza soldi e senza lavoro, perde anche la moglie. La canzone termina con una immagine molto evocativa: “Over and over again the doors are locked/And the windows are broken”; che non può che non lasciare un groppo in gola. Si tratta per la verità di uno dei pochi testi degni di nota dato che la maggior parte di essi, pur parlando di temi interessanti come la droga, l’alcohol, l’emarginazione sociale non hanno lo stesso piglio vagamente poetico di Harry Bridges.
Le sorprese comunque non sono finite: Black & Blue, St.Mary, Motorcycle ride regalano sicuramente altri momenti di grande hardcore, sempre meno di stampo californiano e sempre più british. È indubbio che l’album soffra di alcuni cali compositivi, ma del resto mantenere lo stesso livello per ventitre canzoni consecutive è un risultato che pochi possono ottenere. Se ne avessero messe quindici o sedici il voto poteva essere addirittura superiore forse, ma lamentarsi è difficile. I Rancid, con un suono più policromo e pulito, ma sempre intenso e veloce, si impongono come i Clash a stelle e strisce e staccano il biglietto della fama sfruttando come trampolino di lancio il successo che in quello stesso anno arride al punk revival con album quali Dookie e Smash, rispettivamente targati Green Day e Offspring.
Tweet