R Recensione

9/10

Lycia

The Burning Circle and then Dust

Il deserto è sempre stato luogo in grado di richiamare i sentimenti più oscuri e inquieti. Basti pensare a Nico che con un album intitolato Desertshore realizza probabilmente il capolavoro del gothic rock moderno. Ma il deserto per qualcuno non è solo un posto esotico da cui ricavare la propria ispirazione artistica. Può essere il posto in cui si è nati, vissuti, che in un modo o nell’altro ha condizionato tutta la nostra esperienza biografica, ma può essere anche una scelta di vita. Quest’ultimo, è il caso di Mike Van Portfleet trasferitosi dal freddo Michigan al deserto del Mesa, Arizona. E non è forzato pensare che il deserto abbia giocato un ruolo non secondario nel modellare la ricerca e le intuizioni sonore del suo progetto, i Lycia.

La stessa Tara Wanflower, unitasi al gruppo proprio prima di realizzare questo doppio, maestoso disco, non ha nascosto in varie interviste che l’ambiente naturale da cui i membri del gruppo sono circondati, ha sempre influito notevolmente nel creare certe atmosfere o esternare certi umori rispetto ad altri. Se le prime prove del gruppo si alimentavano di un senso di oppressione claustrofobica e alienante, di una tensione disperata, di una affannosa ricerca di una via di uscita dalle tenebre del sottosuolo, in The burning circle and then dust, prevalgono gli spazi aperti; l’inquietudine non è più figlia di un senso di oppressione ma il vuoto interiore riflette l’enormità delle distese desertiche che si perdono senza fine all’orizzonte; alla paura della morte si sostituisce quella di una vita a vagare per un mondo sconfinato ma inespressivo e monotono.

Prevale l’inadeguatezza, la bassezza e l’insignificanza di fronte alla grandezza della natura e all’ineluttabilità della morte. Al tormento della mancanza di libertà di muoversi e di esprimersi si affianca lo spettro della solitudine e della distanza dagli altri. La disperazione e l’angoscia lasciano il posto alla rassegnazione, a un deserto piatto e triste dove l’unica differenza percepita è marcata dalla linea dell’orizzonte che separa cielo e terra. In questo senso la maturazione della poetica di Van Portfleet è paragonabile a quella di Ian Curtis nel suo passaggio dal frenetico e disperato post-punk di Unknown pleasures al malinconico e rassegnato Closer. Analogo ragionamento può essere fatto per gli Swans nella transizione da Children of God a White light from the mouth of infinity.

Sono tutti passaggi da una situazione di conflitto (interiore, spirituale, esistenziale) a una di pace. Ma non significa necessariamente che ciò porti un vento di ottimismo e serenità. La pace dei Joy division, degli Swans, e in buona parte anche dei Lycia (che però non perdono mai del tutto la speranza in un nuovo inizio), è una pace frutto della sconfitta, della consapevolezza di non aver trovato una risposta. Le atmosfere possono essere meno opprimenti e violente, ma non meno angoscianti. Questo diverso mood è accompagnato, in The burning circle and then dust, da una ricerca dell’ oscuro e dell’occulto non più così debitrice (come invece lo era nei primi dischi) nei confronti della  dark-wave più nevrotica, perversa e allucinata.

Le scarne e secche composizioni dei Joy division o dei Killing Joke o quelle ipnotiche dei P.I.L, hanno ora un peso specifico minore nell’economia del disco, mentre l’attenzione si sposta con decisione verso la creazione di atmosfere cupe e ed eteree, quasi fosse un tentativo di fare con la musica gothic un album sinfonico. Il recupero della chitarra acustica e l’uso più massiccio del basso, non penalizzano infatti l’uso dell’elettronica e del sintetizzatore, che resta il vero e proprio protagonista del loro sound, di quel sound che potremmo definire ambient-dark. Se il risultato sono canzoni forse più ortodosse e accessibili rispetto al passato, si tratta globalmente di un disco di non facile consumo, un’ opera monumentale, un doppio album per quasi due ore di musica, che vuole ergersi a summa non solo della loro poetica, ma come opera definitiva, compendio finale di trenta anni di gothic-dark. Probabilmente riuscendoci.

Proprio la chitarra acustica nella opening track, A presence in the woods, sembrerebbe scandire un passo pacato e armonioso, ma è solo l’illusione di un attimo: bastano poche parole cantate da Van Portfleet in una cadenza da sermone nero, accompagnato da una cornice di suoni eterei e minacciosi per farci capire che siamo nel bel mezzo di una foresta senza uscita. La selva oscura dei Lycia diventa il posto del misterioso e del soprannaturale (“with a blink of an eye the sun and the moon collide”), di ciò che non si può vedere ma che ci angoscia. Poi, Wandering soul, fa di questa angoscia collettiva dell’umanità, delle nostre paure, una questione individuale. La solitudine dell’Uomo costretto a vagare solo e senza meta per ogni dove, per questo “deserto” in cerca di una risposta che non può trovare, sarà il leitmotiv di tutto il disco: “now I'm alone, so I'll just drive and drive/I'll just drift from here to there”. Per l’anima in pena che vaga è già il tempo di abbandonarsi al pessimismo, alla consapevolezza che ciò che vuole non lo avrà mai (“just trying to forget...this all/ and...all these things I only dream of/ and...all the things I'll never have...never”). La creazione di atmosfere plumbee e misteriose prosegue con la trilogia strumentale di Dust settles, i cui intenti epici (il crescendo di part 3)sono i qualche misura assimilabili alla serie delle Three shadows dei Bauhaus. In Pray, una delle loro canzoni più famose, e in The better things to come la voce diventa comunque un lieve rantolo di dolore, quasi interamente sommerso dagli effetti ambient in stile Dead can dance e da quelli neo- psichedelici in stile Echo and the bunnyman, ma è percepibile il dolore per la lontananza dell’amata (“the face of the girl/ but she's so far away”), mentre la gioia di riaverla tra le braccia per un attimo è subito raggelata dalla sentenza finale:”this all fades away/ this all fades away”.

Ma è in On Horizon che i Lycia raggiungono l’apice visionario della loro metafisica cupa, dove gli effetti drone- elettronici aprono enormi spazi vuoti che si affacciano sull’infinito. I Lycia entrano nel pieno di una dimensione atemporale e aspaziale. L’ambient gothic creato con l’uso dell’elettronica dai Lycia richiama a gran voce tanto la psichedelia shoegaze, quanto le cornici oscure ma allo stesso tempo eteree e sognanti dei già citati Dead can dance, ma laddove il gruppo anglo-australiano voleva trasmettere l’ideale buddista della pace interiore, qui la voce aspra e tagliente di Van Portfleet (invero più simile a quella di Gira frullato con i fratelli Reid e Coleman) sembra fare dell’inquietudine una condizione umana quasi incontrovertibile. Il crollo delle certezze primordiali (Where has all the time gone), è sempre inserito all’interno del tema della solitudine e del vuoto (Silence and distance),di una frustrazione senza fine, usando le parole di Van Portfleet, che nella sua ottica visionaria è rappresentata dal cerchio di fuoco, quel burning circle che da il titolo all’album.

Una solitudine che tenta di essere esorcizzata cercando una fuga, un cambiamento: “Iknow that i must leave, I know I have to go”, recita disperatamente Anywhere but home, ma sembra proprio che qualunque posto sia un mondo selvaggio e inospitale (Fire and flames), in decadenza (Slip away). A chiudere il primo disco, The last day segna la fine di questo circolo vizioso di disperazione e annuncia una nuova rinascita. Così, il secondo disco appare appena più solare e ottimista, almeno nelle liriche, mentre musicalmente, poco ci si discosta dagli scenari tetri e onirici del primo disco. Si distinguono comunque August part 1 e 2, delicate e romanticheggianti (che ammiccano timidamente ai Cure). Ma la policromia è indubbiamente affidata all’estro vocale di Tara: gli unici due pezzi in cui canta, sono per la verità due dei migliori dell’intero disco, come ammetterà lo stesso Van Portfleet. Il primo, Nimble crea delle melodie dolci ed eteree di grande fascino, ricostruendo quel magico contrasto vocale e chiaroscurale che già era marchio di fabbrica degli Swans (il dualismo Gira-Jarboe), ma Surrender non le è da meno con il suo dream-pop rarefatto à la Cocteau twins. Notevole anche la malinconica These memories pass che ripropone alcuni spunti già presenti in Silence and distance(“so is this your goodbye? cloaked in silence /have you left me forever? Frustration prevails”).

Invece in Burning circle si respira la speranza che il fuoco della frustrazione e della solitudine, consumato e trasformato in polvere possa portare a una vita migliore, a dimenticare i tormenti del passato: “the burning spiral burns again, for the last time/ and then it fades/ the dust it settles all around/ and through the fire comes better days/ and all these memories burn away”.

La rinascita è poi annunciata ufficialmente da New day, in cui si prende consapevolezza di essere vivi ancora, la consapevolezza che sia necessario cambiare, andarsene per fuggire la solitudine, ma lo scontro interiore è difficile e sembra che infine prevalga l’autocondanna a rimanere, a persistere nella vuotezza del deserto della solitudine: “and I'm back here again, again, again, again/ I knew I could never leave”. Van Portfleet, al contrario, vincerà la sua battaglia. Deciderà di abbandonare il deserto, il suo circolo di fuoco e di trasferirsi nelle montagne dell’ Ohio dove inciderà Cold, che, da come si può percepire fin dal titolo, sarà ispirata da ben altri sentimenti e ambienti naturali.

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Voto degli utenti: 6,6/10 in media su 4 voti.
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4AS 10/10
loson 5/10

C Commenti

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4AS (ha votato 10 questo disco) alle 15:03 del 24 luglio 2009 ha scritto:

Incredibile

all'ascolto sembra di stare dentro a una foresta avvolta dalla nebbia. una sensazione incredibile. cmq a mio avviso è il più grande disco dark di sempre, nessun gruppo del genere ha mai creato una tale atmosfera (da far raggelare il sangue!)