R Recensione

8/10

Rome

Flowers from Exile

Quando si parla dei Rome, non si può non  parlare di un  poeta oscuro e malinconico, cantore della disillusione postindustriale, mente e anima di questo progetto. Si parla di una via di mezzo fra uno chansonnier francese e un poeta romantico tedesco. Ma in realtà il lussemburghese Jerome Reuter è ormai semplicemente un cantautore a tutto tondo che, abbandonati quasi del tutto gli sperimentalismi industrial e il carattere più apocalittico del neofolk, abbraccia più lo stile di artisti quali Leonard Cohen, Nick Cave e Mark Lanegan che non dei Death in June.

Lo si nota nella sua ultima fatica, Flowers from exile, dove le fosche tinte apocalittiche e marziali sono stemperate e diluite dall’eleganza degli arrangiamenti, dalla compostezza delle liriche, dall’uso corposo della chitarra acustica e del violino e dalla voce stessa di Reuter, sempre scura, ma ora più pacata e riflessiva. Resta comunque un disco impregnato da atmosfere tormentate e decadenti, in sintonia con quello che vuole essere il tema del disco: un’amara riflessione sulla Guerra civile spagnola e sulle migliaia di persone che proprio in seguito a questo drammatico evento storico, furono costrette a lasciare la Spagna come esuli.

E nulla sembra far rivivere meglio l’apprensione e la paura di quegli anni come il violino ora spasmodico ora dolcemente malinconico di Nikos Mavridis, il suono atmosferico del "tecnico" Patrick Damiani e il cantato sofferto di Reuter. Non è comunque un album politico o, quantomeno, non in modo convenzionale (“It is no political album. Nothing is pure politics. If you sing about love between people and the fear of man, than this is nothing political. But at the same time there is nothing that could be more political”). Reuter non è affatto interessato a mandare messaggi o slogan pacifisti (siamo lontanissimi da Bob Dylan ma anche dai Pearls before swine, nonostante un comune uso dell’evento storico come escamotage per riflettere su vicende contemporanee), la sua è principalmente una poetica esistenzialista (in senso lato) in cui si possono rintracciare echi di Leonard Cohen e, ovviamente, di Federico García Lorca (che di quella guerra ne è stato illustre vittima), una delle letture predilette di Reuter.

La guerra è vista in contrapposizione alla fratellanza, altro tema fondamentale del disco. Una fratellanza che il leader dei Rome non vede in termini astratti. Nella sua ottica pragmatica la fratellanza da realizzare è quella fra i popoli d’Europa. Router si sente europeo, è nato e cresciuto vicino al confine con il Belgio, ha parenti spagnoli, è vissuto per un lungo periodo in Germania, l’influenza della cultura francese è forte, la lingua di riferimento nella sua produzione artistica è l’inglese ma il disco presenta spezzoni cantati o parlati in tedesco, spagnolo, mentre in altri dischi era presente l’italiano e il francese. Così il disco è il riflesso del fallimento della speranza di una pace fra le potenze europee, il riflesso del “suicidio dell’occidente”, delle guerre fratricide che hanno caratterizzato la prima metà del Novecento.

Vi è comunque la speranza (probabilmente rafforzata da oltre sessant’anni di effettiva pace sul continente?), in The secret sons of Europe, piccolo gioiello con la sua chitarra flamenco leggera e fresca e  la voce di Reuter calda e profonda che evoca rimembranze di un Lanegan nelle sue composizioni più “ispaniche” e ubriache (El sol, Borracho). Un andamento solenne caratterizza The accident of gesture, che inizia con scarni battiti di percussioni e pochi strimpellii di chitarra  per poi esplodere in un baccanale rumoristico quasi shoegaze; e Odessa, dove Reuter pare un Johnny Cash del nuovo millennio che recita inquietanti parallelismi fra la guerra civile spagnola e la tragedia di quella così distante ma così vicina città ucraina.

Mentre gli spezzoni di The hollow self, To a generation of destroyers e A culture of fragments, sono praticamente documenti audio a carattere storico, indubbiamente funzionali a creare l’atmosfera e a delineare le coordinate entro cui si muove il disco, A legacy of unrest e To die among strangers recuperano la forma canzone, anche se trattasi delle due composizioni più oscure e apocalittiche, ancora abbastanza lontane dal passato prossimo dei Rome stessi, ma assai vicino invece a certe composizioni degli Angels of light. I ritmi rallentano con We who fell in love with the sea, leggera e angosciante come il sollevarsi della polvere dopo l’esplosione di una bomba. Flowers from exile, interamente costruita su un motivetto di cinque note di pianoforte ripetute all’infinito, è il poemetto epico dei miserabili, una piccola la Suzanne del ventunesimo secolo.

C’è epica anche in Swords to rust, hearts to dust e nel suo memorabile ritornello, ma a mettere il suggello su una delle opere più dense e passionali dell’anno, è Flight in formation, affidata al parlato autorevole e glaciale di Reuter, che vuole mandare l’ultimo messaggio, probabilmente rivolto agli aviatori franchisti (ma generalizzabile a tutta l’umanità), un appello a cessare l’orrore dei bombardamenti:  “Detach yourself!/ For there is a war/deep in our hearts/ and that’s where all battles ought to be fought/ come here/ lower your eyes/ and surrender”. Quando si parla dei Rome, si parla ormai di uno dei progetti più significativi di tutta l’Europa continentale.

V Voti

Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 19 voti.
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krikka 5/10
Cas 8/10
target 6/10
lev 8/10
giank 8/10
REBBY 9/10

C Commenti

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Roberto Maniglio (ha votato 8 questo disco) alle 22:24 del 12 agosto 2009 ha scritto:

è piaciuto molto anche a me. Sottoscrivo in pieno la recensione.

Mell Of A Hess (ha votato 8 questo disco) alle 4:57 del 18 agosto 2009 ha scritto:

Grazie

Grazie Alessandro, chiunque tu sia, per avermi fatto scoprire questo disco, non conoscevo affatto Rome (mea culpa) e da questa manciata di tracce sono proprio stata rapita.

Non posso dare un giudizio che tenga in considerazione anche gli Lp precedenti perchè sto cercando di recuperare il tempo perduto, ma per me questo (quello di Jerome ed il tuo da recensore) è proprio un bel lavoro ,il disco con le atmosfere che stavo cercando!

fgodzilla (ha votato 8 questo disco) alle 11:38 del 19 agosto 2009 ha scritto:

e per questo

Che AMO alla follia questo sito ....

perche' ogni girono scopri qualcosa di nuovo e di meraviglioso.......

LOVE

REBBY (ha votato 9 questo disco) alle 17:05 del 6 settembre 2009 ha scritto:

Colpito e affondato già al primo ascolto, cresce

nei successivi. L'idea ora è che se la giochi con

Soap & Skin per il mio trofeo continentale (eheh).

Oltre ai mestri citati nella bella rece io ci

sento una volta De Andrè, una volta Brassens e

più volte i National.

Cas (ha votato 8 questo disco) alle 18:03 del primo ottobre 2009 ha scritto:

splendida opera di cantautorato, bravo!

Mr. Wave (ha votato 6 questo disco) alle 15:42 del 17 ottobre 2009 ha scritto:

Evocativo grazie ad episodi quali; The hollow self, To a generation of destroyers, A culture of fragments e Swords to Rust / Hearts to Dust, ma a tratti. Molto spesso l'ho trovato dispersivo e disorganico rispetto alle aspettative che si erano plasmate attorno a Jerome Reuter & Co e a quest'ultimo lavoro. Poco incisivo e soprattutto meno suggestivo rispetto a ''Confessions d'un voleur d'âmes'' e ''Masse Mensch Material ''. voto: 6.5

Filippo Maradei (ha votato 8 questo disco) alle 20:54 del 30 aprile 2010 ha scritto:

Forse il migliore di Rome: profondo, melodico, riflessivo, spagnoleggiante, per nulla ripetitivo pur nella sua "costanza sonora".

E poi la voce di Reuter... bellissima.

FrancescoB (ha votato 7 questo disco) alle 21:47 del 30 aprile 2010 ha scritto:

Questo è pane per i miei denti. Forse non un capolavoro, ma comunque un disco notevole ed a tratti decisamente affascinante. Lo spettro di Douglas P. aleggia un pò ovunque.