Everything Everything
Arc
Difficile (o forse facilissimo) individuare un collante, un principio unificatore che condensi e riassuma le differenze tra Man Alive e quest'ultimo Arc, se non mettendo da parte per un attimo le questioni stilistiche che pure sono prolungamento (e perchè non premessa?) della presumibilmente mutata attitude e soffermarci, per una volta, sulle parole dei diretti interessati. Con Arc volevamo fare un disco che colpisse al cuore afferma Jonathan Higgs, voce e tastiere degli Everything Everything. Come ogni tentativo di spiegare il proprio lavoro, l'affermazione va presa con le molle. Primo, perchè rischia di creare fraintendimenti clamorosi (Man Alive disco che parla solo al cervello? Ma andiamo...); secondo, perchè il farsi più heartfelt non può certo qualificarsi come pregio se la traslazione di suddetta emotività comporta una banalizzazione dei valori messi in campo nell'esordio.
Insomma, posto che colpire al cuore è finalità implicita del pop nel suo complesso - nonché premessa cardine per instillare devozione nell'ascolto e finanche l'ipotetica comprensione di ciò che si ascolta - cerchiamo di capire in cosa consista questa nuova apertura emozionale e come essa agisca, o si riverberi, sul dato musicale, avendo sempre ben presente che non si tratterà di modifiche in senso assoluto ma relative a specifici segmenti del discorso accordale, melodico, armonico o sonoro. Un buon punto di partenza è la semplificazione delle strutture, con maggiore enfasi sul ritornello, sulla cantabilità. Prassi che porta, nelle sue declinazioni più frizzanti, alle aperture di Armourland e Radiant (trionfale l'hook chitarristico tutto quarte a coronare gli sviluppi di ciascuna sezione), in quelle più deleterie allo scimmiottare i Coldplay (Duet, la loro versione di Viva La Vida, è proprio bruttarella) o al finale appannato della coppietta The Peaks/Don't Try: l'una esemplificazione del lento nel quale il coinvolgimento emotivo dell'ascoltatore è inversamente proporzionale alle quintalate di pathos dispensate dai musicisti, l'altra innocuo giocattolo indie-rock immeritatamente sottratto al suo destino di b-side.
Il paradosso, semmai, è che la tendenza alla semplificazione dei ritornelli conviva col suo opposto: infittire le già arzigogolate trame delle strofe, col singolo Cough Cough a sancire il climax di frenesia math-pop e scientifico susseguirsi/accavallarsi di pattern ritmici, polifonie vocali, schemi contrappuntistici. Un procedimento bidirezionale, a ben vedere, del quale la già citata Armourland è prototipo: e quindi strofa rigurgito simil-wonky che definire frastagliata è poco, ritornello che scioglie la tensione con una fra le melodie più immediate che il quartetto abbia concepito. Kemosabe procede sulla falsariga di quest'ultima gocciolando estasi a catinelle, ed è anche un utile bignamino ove rintracciare le caratteristiche produttive/strumentali che informano Arc nel suo complesso. In primis il sound: più vellutato, malleabile, con il missaggio a togliere contrasto ed esaltare la sofficità delle partiture. Ecco le chitarre di Alex Robertshaw farsi traslucide, sempre fantasiose nel fraseggio ma meno istrioniche, più prevedibili nella gestione di effetti e cromatismi. Le tastiere suonano anch'esse meno stereolabiane, isteriche e ficcanti. Il basso resta l'irresistibile e complessa macchina che ha reso Jeremy Pritchard uno fra più originali e dotati nell'approcciare questo strumento (pure se un tantino penalizzato nell'economia dei nuovi pezzi), lo stesso dicasi della batteria di Michael Spearman. La voce di Higgs, infine, è sfruttata secondo modalità espressive del tutto coerenti con quelle adottate nell'esordio, per quanto ora maggiormente settata sul registro di falsetto.
In questo quadro, c'è posto anche per episodi che più ci ricordano gli Everything Everything del recente passato. Torso Of The Week prende le mosse da un r&b pelle e ossa per sfociare in quel territorio fra math, prog-pop e Bloc Party che è forse la cifra stilistica più riconoscibile all'interno della loro (sterminata quanto personalissima) gamma espressiva. Undrowned, impostata a mò di canone, tutta in crescendo, ammalia come ne sarebbero capaci dei Gentle Giant cresciuti nella generazione post-Radiohead. Su Choice Mountain basso e chitarra balbettano in muting su moduli costituiti da ostinati di biscrome che si distribuiscono a intervalli regolari nella battuta, placandosi soltanto se interrotti dal remoto cinguettìo di dulcimer e xilofoni. The House Is Dust è il lento che fa eccezione, l'unico a rinverdire i fasti di NASA Is On Our Side o Leave The Engine Room: una prima sezione caratterizzata dal sovrapporsi di batteria in 6/4 e il 4/4 seguito dal resto della strumentazione, con annesso sfasamento percettivo; a 1'30'' un intermezzo paradisiaco, rivelatore, che si scoprirà essere semplice premessa per una seconda sezione solo pianoforte e voce, lacrime sul viso e groppo in gola.
Nonostante i difetti rilevati con forse eccessiva severità (ma è normale essere esigenti quando il gruppo è di tale levatura!), Arc resta un buon disco, a tratti eccellente. Suona più normale di quanto ci si aspettava, meno arty, e ciò potrebbe deporre a suo favore al momento del fatidico contatto con le charts (sempre che il pubblico non si faccia sviare dai pessimi riscontri del precedente). Per ora godiamocelo, poi si vedrà. Con la sicurezza, però, che un Man Alive, a tutt'oggi uno degli esordi cruciali del nuovo decennio, resta inavvicinabile. E chissà che stavolta Pitchfork, nel tirare le somme, non riesca ad arrivare al 4.
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