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R Recensione

6/10

Thundercat

Drunk

Ha collaborato a questa recensione Fabio Codias

Stephen Bruner, alias Thundercat, piace proprio a tutti. Non che sia un mistero: come fai a non essere appetibile, con un curriculum che dai Suicidal Tendencies va a Kamasi Washington, passando per Flying Lotus e Kendrick Lamar? Prendi in mezzo e metti d’accordo metallari, jazzofili della prima e dell’ultima ora, disser impenitenti: piaci a Pitchfork e alla liberal class tutta brunch e Spotify, ti si ascolta per strada e da Jimmy Fallon. Come ti si può resistere, quando nel tuo arco hai una freccia come “Them Changes”? Proprio non si può. Ecco allora che la release del terzo disco solista per Brainfeeder, “Drunk”, diventa – a suo modo – un evento, la costituzione di un universo in scala ridotta dotato di proprie regole e di un proprio funzionamento. Come un concept d’altri tempi, un prodotto d’artigianato di una Motown persa nel tempo, Thundercat riunisce amici e collaboratori, nomi altisonanti e firme d’eccezione: cavalca hit spaccaclassifica, riesuma i vecchi classici, si ritaglia spazi di assoluto funambolismo, seleziona e accosta a piacimento stili e sonorità antitetici ma sussumibili, a grandi linee, nel comune diapason di una generica blackness (e difatti il pezzo di metà tracklist, una bossa libraryzzata come la interpreterebbe Herbie Hancock, si intitola proprio “Blackkk”, dove le tre k non sono probabilmente casuali).

Al che mi torna in mente una celebre frase attribuita a Siniša Mihajlović, nei turbolenti anni di transizione che portarono alla dissoluzione della compagine calcistica jugoslava: “Noi possiamo battere Italia e Francia, e poi perdere contro i camerieri del nostro albergo. Per questo non vinceremo mai nulla”. Gli slavi, nel calcio, sono sempre stati un oggetto particolare, quando non alieno: giocatori di immenso talento e di prospettive sconfinate, capaci di grandi prestazioni, ma soggetti ad una sorta di abulia ontologica che, come una maledizione, ne ha sempre fortemente limitato la continuità. Bruner slavo non è, ma ci assomiglia, ed ascoltare “Drunk” è un po’ come assistere ad una partita in cui i giocatori della tua squadra del cuore inanellano novanta minuti di triangolazioni superbe, assist al bacio, numeri da fantacalcio: poi però sono gli avversari a segnare, una, due, tre volte. Quindi si torna a casa, esteticamente appagati, ma con un pugno di mosche in mano. Dalle storie di vita e malavita di Wiz Khalifa in “Drink Dat” alla patinata synth-fusion di “Inferno”, dai beat urban di “Jethro” al Zappa soul oriented del vertiginoso schizzo “Captain Stupido”, dai bleep plunderfonici di “Tokyo” all’avvolgente ‘80s r’n’b di “A Fan’s Mail (Tron Song Suite II)” (con interpolazione di un sample di “Long Red” dei Mountain), Thundercat predispone una fittissima rete di rimandi e assonanze, la bocca di un calderone stracolmo di input di cui non si riesce a vedere la fine: nel bene e nel male.

Non solo: ci si aspetterebbe, da uno con tanta quantità (intesa come “numero di soluzioni potenziali” ma anche come “numero di note al secondo”) il vantaggio della complessità accompagnata dal limite della prolissità. Ci piacerebbe assistere ad un compendio delle lezioni di Prince e Herbie Hancock. Vorremmo, almeno, poterci lamentare delle suite infinite del suo amico Kamasi Washington, dire che “si perde un po' perché osa troppo”. E invece niente. “A Fan’s Mail (Tron Song Suite II)”, “Captain Stupido” si limitano ad abbozzare, suggerendo trame complesse che non hanno sviluppo alcuno: le collaborazioni prestigiose (Kendrick Lamar, Pharrell, Wiz Khalifa) manifestano esclusivamente la voglia di esserci, di partecipare alla festa black del momento, e l'intero disco, pur preservando un senso generale di godibilità, sembra essere una continua ricerca del colpo del ko. Colpo quasi ottenuto nei tre minuti tondi e perfetti di “Them Changes” e in tutte quelle occasioni in cui il basso del suo creatore principale rimane al centro della scena non per trasformarsi in un verboso sputanote (“Uh Uh”) ma per fare quello che dovrebbe sempre fare: sostenere strutture jazz (“Tokyo”), funk (“Friend Zone”), finanche pop (“Show You The Way”) e ambire a raggiungere quelle stelle (Stevie Wonder, George Clinton) che per il momento sono ancora lassù.

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Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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FrancescoB alle 10:53 del 12 gennaio 2018 ha scritto:

Sono un po' meno severo nel giudizio complessivo, nel senso che secondo me me l'opera è godibile e tendente al discreto (diciamo un 6,5 pieno, se devo quantificare). Quoto però nella sostanza le considerazioni stilistiche e sul talento in parte inespresso: questa è un'opera che potenzialmente può piacere a musicofili di estrazione molto diversa (dal jazz all'hip hop alla tradizione soul/funk, come giustamente osservate), ma che forse non soddisfa in pieno nessun palato, anche per limiti in fase di scrittura. Thundercat è molto bravo, insomma, ma purtroppo è consapevole di esserlo e diventa schiavo della propria preparazione, mettendo in secondo piano il fine principe: l'espressione e la ricerca (anche estetica) personale.