Kamasi Washington
The Epic
Questo è il disco dell'anno. Quale sarà il più bello o il più ascoltato lo deciderà ognuno di noi, ma per ascoltare, comprendere e approfondire The Epic di Kamasi Washington più o meno ci vuole un anno intero. E' un'impresa complessa, che richiede tempo, dedizione e impegno. E' un'impresa, appunto, epica.
Proviamo a dare due numeri, giusto per tarare le dimensioni di questa enciclopedia musicale. Kamasi Washington, classe 1981 (dai, non può essere più giovane di me!) da Los Angeles, sassofonista, produttore e band leader. Vincitore del John Coltrane Music Competition all'età di 18 anni. Ha suonato con Kenny Burrell, Wayne Shorter e Herbie Hancock. Ma attenzione anche con Lauryn Hill e Snoop Dogg. Nel giro di pochi mesi, ha contribuito alla realizzazione di due dei dischi più belli degli ultimi anni: You're Dead! di Flying Lotus e To Pimp A Butterfly di Kendrick Lamar. Due dischi, per quelli che avessero trascorso un lungo periodo sull'Isola di Pasqua, che innestavano il concetto stesso di jazz in una versione moderna dell'hip-hop. Nello stesso periodo, Kamasi Washington l'instancabile si chiudeva in studio per realizzare The Epic, che è in sostanza il suo quarto disco (i tre precedenti, per chi volesse cercarli, sono autoproduzioni dello stesso Washington). Andiamo avanti: 17 brani distribuiti in 3 dischi per un totale di quasi 3 ore di musica, 2 batteristi, 2 bassisti, tastiere e pianoforte insieme, 3 fiati, 2 cantanti, 20 coristi e 32 archi. Ovviamente, la band è composta dai migliori musicisti di Los Angeles: uno dei due bassisti, ad esempio, è Thundercat (al secolo Stephen Bruner), già noto per aver suonato con Erykah Badu, con Flying Lotus e Kendrick Lamar (ovviamente), ma anche con quegli scavezzacollo dei Suicidal Tendencies. Uno dei due batteristi è il fratello di Thundercat e si chiama Roland Bruner jr., che dai Suicidal Tendencies è approdato direttamente alla corte di gente come Kenny Garrett e Marcus Miller.
E personalmente mi fermo qui. The Epic ha una nervatura ritmica perfetta, sontuosa e impeccabile. Declina il jazz in ogni modalità, sottolinea le influenze (funk, rock, gospel), crea, inventa e si mette al servizio del genio di Kamasi Washington con disciplina ma forse con altrettanto genio. Se non mi credete sentite - quasi a caso - Final Thought. O i 10 minuti di The Message. L'ho già scritto, genio?
Sì, e direi che la definizione (di cui spesso abusiamo, io per primo) calza a pennello. Premetto che descrivere tre ore di musica in poche righe è una fatica. Diciamo che per immaginare l'impatto di The Epic dobbiamo pensare a un Archie Shepp con le fattezze e con le manie di grandezza di un Charles Mingus che, dopo aver ascoltato Sandinista, pensa di poter mettere la freccia di sorpasso per creare un'opera ancora più mastodontica e indefinibile. Un'opera ancora più vasta e complessa: in tal senso, degna delle oceaniche visioni del Miles Davis maturo, quello che credeva di avvicinarsi al mainstream pop mentre spostava avanti le lancette della storia. Solo che qui il flusso musicale è meno caotico, più comprensibile, volendo più lirico, o anche solo più rock. In linea di massima, possiamo dire che Kamasi la cui carriera multidirezionale è già stata brillantemente riassunta da Codias mette a fuoco la capacità onnivora e futurista di molta black music contemporanea, ponendosi a fianco dei suddetti, illustri grandi pensatori/manipolatori (da Kendrick Lamar a Flying Lotus, passando per i vari Robert Glasper e Matana Roberts).
La rivoluzione sarà teletrasmessa, questa volta. E Kamasi è in prima fila, perché lavora la musica sul fianco jazz, esattamente come Kendrick la lavora sul fianco hip-hop: in direzione autenticamente globale, ma senza terzomondismi da cartolina. I suoi piedi sono ben saldi nella lunga storia di emancipazione della cultura afroamericana, e allora non è un caso se i graffianti sermoni del fratello Malcolm fanno capolino un po' ovunque in questo periodo, nel bel mezzo di questa new-wave nera che ci sta travolgendo. Kamasi è al passo coi tempi, ma pesca a piene mani in tutta la storia del jazz: venera il suo versante più spiritual, che celebra matrimoni ariosi con il gospel (i cori dolcissimi sparsi ovunque, la meravigliosa The Rhythm Changes su tutto), si confronta con la tradizione policromatica delle big band, passa dalle parti del suo nume tutelare John Coltrane. Kamasi, esagerando un pochino, sembra animato dalla stessa foga che spingeva John: è un musicista che non conosce il significato della parola parsimonia. Eppure non è un pasticcione: ogni passaggio di The Epic sembra anzi programmato sin nei minimi dettagli, dagli svolazzi funk-fusion (gli splendidi solo di organo che paiono fuoriusciti direttamente da qualche oscura session di Hancock e Davis!) alle carezze soul-pop (l'amica Lauryn Hill?), passando per gli assalti frontali del sassofono e le atmosfere dilatate da new age del jazz.
Tutto suona al contempo naturale e studiato nei minimi dettagli. Se proprio vogliamo trovare un difetto in questa opera che è tutto sommato accessibile, che gode di una piacevole e fresca leggibilità, dobbiamo parlare della lunghezza. Naturalmente, trattasi di limite che il tempo aiuta a superare: se un singolo ascolto può risultare snervante (semplicemente perché troppo impegnativo, in sostanza), i successivi riveleranno progressivamente idee e dettagli nuovi, in un maestoso crescendo di musica densa e solenne, che si muove contemporaneamente in direzioni diverse. E che pure, come dicevo, risulta accattivante, di impatto. Kamasi ha la capacità di sfruttare motivi a forma di bozzetto per cavarne l'impossibile, carica le poche note che combina di una potenza espressiva irresistibile. Qui sta il miracolo: in un 2015 ricchissimo di brillanti idee musicali, che sembra voler mettere a tacere con eleganza tutte le teorie sulla morte della musica, Kamasi riesce a sedere a fianco dei più grandi. O forse merita addirittura la palma di primus inter pares. Insomma, roba veramente epica.
Se non si fosse capito: genio.
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