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R Recensione

6/10

John Zorn

Salem, 1692

Con sette incisioni in poco più di tre anni, la missione soggiacente al progetto Simulacrum – inopinatamente rinominato Insurrection dopo l’entrata in formazione del mirabolante Julian Lage e il rilascio, nella primavera dello scorso anno, di un convincente full length omonimo – comincia a delinearsi con chiarezza: disporre di un quartetto degli orrori, capace di farsi avanguardista macchina teatrale e feroce orchestra metallica, in grado di svariare in uno spettro che incroci funk atonale, escoriazioni noise e languide bolle di exotica, verso la definizione di un nuovo e totale crossover contemporaneo. Data la riduzione ai minimi termini della recente attività produttiva di Tzadik (se si esclude l’opulento canzoniere The Book Beri’ah, che merita tuttavia un’adeguata ed esaustiva trattazione a parte), tanto e tale sforzo assume un significato vieppiù particolare: mastro Zorn ci deve credere veramente. Qui cominciano a squillare le note negative: per la prima volta dalla discesa in campo del tremebondo “Simulacrum” (2015), la parabola stilistica dell’operazione segna una brusca inversione a U, arenandosi tra le poco felici composizioni dell’ottavo “Salem, 1692”.

Il precipuo difetto del disco è quello di aver scambiato, inaspettatamente, il concetto classico di variatio con quello, postmoderno, di esagerazione degli opposti. In altre parole, se ogni capitolo precedente apportava un proprio contributo in termini di approccio strumentale e commistione degli ingredienti, qui la si butta sul rendere il rumoroso ancora più rumoroso, il lirico ancora più lirico, il cacofonico ancora più cacofonico. Non una scelta ideale: tra il consueto warmup di “The Devil Bid Me Serve Him” (una fusion dodecafonica dalla rivestitura metallica, che scivola su di un groove non meno che contagioso) e l’incredibile “Witness To An Invisible World” (un McLaughlin sotto anfetamine stritolato tra galoppi funk metal ed esagitate rincorse tech), si susseguono l’acidissimo free jazz chitarristico di “Tituba” (il brano più urticante dai tempi degli autografi di “The Painted Bird”), la retroversione crimsoniana dell’austera chanson di “Spell Bound” e i distonici sussulti matematici di “Under An Evil Hand”. Non esattamente esaltante sul piano fisico (estenuante il doom monocorde della conclusiva “I Will Not Write In Your Book Though You Do Kill Me!”), il platter evidenzia delle difficoltà anche sotto il profilo melodico, inanellando selenici lenti d’immota ma sterile compostezza (“Dark Of The Moon”), perturbanti storture ambientali su remoti canovacci à la Bar Kokhba (“Spectral Evidence”) e candide girandole di fraseggi arpeggiati sulla scia degli episodi più contemplativi dello Gnostic Trio (“Sarah Good”).

La sensazione, già affiorata tra le pieghe più stanche del vecchio “The Garden Of Earthly Delights”, è che a forza di tirare a destra e a manca cominci ad intravedersi la corda. Conviene, forse, concedersi del tempo supplementare.

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