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R Recensione

6/10

OMZA

Otto Maddox Zen Academy

Giusto l’altra sera, chiacchierando a cena con l’amico Francesco Targhetta, ho messo in dubbio la mia reale capacità di cogliere l’essenza, l’eziologia ultima di correnti e tendenze che percorrono la spina dorsale della musica contemporanea. Non saprei veramente individuare, ad esempio, l’attimo preciso in cui l’indie si è fatto mainstream e viceversa, determinare con sicurezza le percentuali di vero e posticcio in Young Signorino o spiegare perché la black music sia la crescente tendenza – mediatica? sociale? entrambe? – di un momento che dura ormai da quindici anni (intendiamoci: vado matto anch’io per “This Is America” e, anzi, lo trovo un brano di un’intelligenza di molto superiore a quella del pubblico destinatario). Tant’è che l’oggetto in questione è quanto di più inattuale possa esistere in questa determinata congiuntura storica: un disco rock (la-roba-con-le-chitarre), dichiaratamente passatista (come se il 90% del rock non lo fosse da almeno tre decadi…) e perdipiù italiano.

Sarebbe stato bello, per evidenti e discutibili gusti personali, se ‘m’ e ‘z’ nel monicker del quintetto triestino si fossero scambiate di posto. Stando così le cose, invece, l’acronimo OMZA potrebbe celare il titolo completo del disco, o significare chissà cos’altro. Ben più trasparenti ed esplicite le tessiture musicali di “Otto Maddox Zen Academy”, in un onesto pout pourri old style che inietta melodie power rock in hard-boogie a presa rapida (“Birds”), sfodera robusti indie rock dal distinto retrogusto brit (interessante il saliscendi armonico del ritornello di “Still Can See You”), imbastisce crossover all’acqua di rose (“Motivational #1”), inchioda motivi psych-pop a chitarre distorte (“Time Machine”) e riscopre apocrifi beatlesiani che provano a farlo strano (“Steal From The Candy Store”). L’album, in generale, regge piuttosto bene, anche grazie alla cura paziente dei dettagli sonori: certo, la cornucopia stilistica sbandierata nel comunicato di presentazione la si vede spesso solo da lontano – dove sono i My Bloody Valentine, ad esempio? – e, anzi, è spesso un difetto di omogeneità a penalizzare l’insieme sulla lunga distanza (“NNR”, per dire, fa intravedere interessanti evoluzioni strumentali che, tuttavia, rimangono tali solo sulla carta).

Tutto nella norma, insomma, discreta cover bowiana in coda compresa (“Moonage Daydream”). Peccato solo che i radar della critica siano orientati su ben altro, e che il timore dell’oblio prematuro per centinaia di dischi simili sia poco meno di una certezza.

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