OMZA
Otto Maddox Zen Academy
Giusto laltra sera, chiacchierando a cena con lamico Francesco Targhetta, ho messo in dubbio la mia reale capacità di cogliere lessenza, leziologia ultima di correnti e tendenze che percorrono la spina dorsale della musica contemporanea. Non saprei veramente individuare, ad esempio, lattimo preciso in cui lindie si è fatto mainstream e viceversa, determinare con sicurezza le percentuali di vero e posticcio in Young Signorino o spiegare perché la black music sia la crescente tendenza mediatica? sociale? entrambe? di un momento che dura ormai da quindici anni (intendiamoci: vado matto anchio per This Is America e, anzi, lo trovo un brano di unintelligenza di molto superiore a quella del pubblico destinatario). Tantè che loggetto in questione è quanto di più inattuale possa esistere in questa determinata congiuntura storica: un disco rock (la-roba-con-le-chitarre), dichiaratamente passatista (come se il 90% del rock non lo fosse da almeno tre decadi ) e perdipiù italiano.
Sarebbe stato bello, per evidenti e discutibili gusti personali, se m e z nel monicker del quintetto triestino si fossero scambiate di posto. Stando così le cose, invece, lacronimo OMZA potrebbe celare il titolo completo del disco, o significare chissà cosaltro. Ben più trasparenti ed esplicite le tessiture musicali di Otto Maddox Zen Academy, in un onesto pout pourri old style che inietta melodie power rock in hard-boogie a presa rapida (Birds), sfodera robusti indie rock dal distinto retrogusto brit (interessante il saliscendi armonico del ritornello di Still Can See You), imbastisce crossover allacqua di rose (Motivational #1), inchioda motivi psych-pop a chitarre distorte (Time Machine) e riscopre apocrifi beatlesiani che provano a farlo strano (Steal From The Candy Store). Lalbum, in generale, regge piuttosto bene, anche grazie alla cura paziente dei dettagli sonori: certo, la cornucopia stilistica sbandierata nel comunicato di presentazione la si vede spesso solo da lontano dove sono i My Bloody Valentine, ad esempio? e, anzi, è spesso un difetto di omogeneità a penalizzare linsieme sulla lunga distanza (NNR, per dire, fa intravedere interessanti evoluzioni strumentali che, tuttavia, rimangono tali solo sulla carta).
Tutto nella norma, insomma, discreta cover bowiana in coda compresa (Moonage Daydream). Peccato solo che i radar della critica siano orientati su ben altro, e che il timore delloblio prematuro per centinaia di dischi simili sia poco meno di una certezza.
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