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R Recensione

8/10

Fleet Foxes

Helplessness Blues

La primavera inoltrata è stagione di caccia grossa. Caccia al presunto disco dell’anno che, in caso di delusione, può trasformarsi in uno spietato tiro al bersaglio. Le volpi, però, sono animali furbi e prudenti, difficili da mettere nel sacco. Tanto più se sono anche agili, veloci. Di nome e di fatto. Agili al punto di arrampicarsi fino al quinto posto della nostra annuale classifica. Così veloci da stupire mezzo mondo - pronti-via - con uno degli esordi più celebrati del decennio appena trascorso, l’omonimo immatricolato 2008. Mezzo mondo, appunto, perché l’altro mezzo, stupito da tanto stupore, non avrebbe scommesso un centesimo su un suono, in apparenza, così nostalgico e votato all’easy listening.

Invece al gruppo di Seattle, uno dei più emblematici del nuovo corso Sub Pop, è riuscito il mezzo (e ci risiamo!) miracolo: rimescolare in modo fresco e attuale (meglio: universale), mediante la spontaneità dell’approccio e l’indiscutibile bontà del songwriting, la loro pozione d’annata: folk anglo-americano, prevalentemente acustico e rurale, e pop vocale solare e barocco. Quello era, però, il debutto, mentre questo è il secondo, “che è sempre il più difficile nella carriera di un artista”. Tutto un altro paio di maniche. I rischi aumentano e il fattore sorpresa diminuisce. Ma loro sono giovani-vecchie volpi, non dimentichiamolo, ed è per questo che sono riusciti ad aggirare l’ostacolo come dire… “agilmente”?

Come ci sono riusciti? Cambiando poco, coltivando l’innata predisposizione per le melodie ariose e indorate, lavorando di lima sugli arrangiamenti (con qualche delicato tocco strumentale in più: harmonium, viola, violino, flauto, ad esempio), sviluppando con sottigliezza e coerenza quelle che erano le componenti enucleate nel primo episodio. E con una formazione che, pur salda sull’asse chitarristico-compositivo Pecknold-Skjelset, è stata rinforzata da due innesti importanti: il cantautore Josh Tillman, già trattato su queste pagine come solista e qui in veste di batterista, corista e arrangiatore (soprattutto le ultime due, si direbbe), e il polistrumentista Marc Henderson, ex membro dei Blood Brothers, straordinario e mai troppo compianto gruppo post-core d’inizio millennio (difficile immaginare qualcosa di più diverso dai Fleet Foxes, in effetti).

Sebbene certe dichiarazioni “pre-partita” del leader Robin Pecknold, che vagheggiava di similitudini con Roy Harper e Van Morrison, non vadano prese propriamente alla lettera, in "Helplessness Blues" si avverte un sostanziale bilanciamento del sound in favore di “quel” folk britannico progressivo, comunitario e itinerante in voga in Inghilterra tra la fine degli anni 60 e l’inizio dei 70, rispetto alle tonalità più genericamente flower-power e west-coast. Un parziale avanzamento del loro baricentro stilistico che ha come emblema il brano più atipico e articolato del nuovo lavoro: "The Shrine/An Argumment". Piccola suite art-folk di otto minuti in tre movimenti: una prima parte più tradizionale, tutta centrata sul picking e sul cantato del solo Pecknold, una seconda solenne e in levare un po’ alla Arcade Fire (cui s’aggiungono la batteria, i cori e una maggiore consistenza strumentale) e infine, dopo un intermezzo chiesastico per sola voce e organo, un’outro free e rumorista screziata da viola e fiati dissonanti. Un tentativo, decisamente riuscito a giudizio di chi scrive, di valicare l’abituale seminato folk-pop, abile nel dosare esperimenti e variazioni senza penalizzare la melodia. Più d’un indizio, forse, in proiezione futura. Il segnale positivo di un gruppo che non ha intenzione di sedersi sugli allori del recente passato.

La stessa propensione celtica e progressiva si respira pure in "The Plains/Bitter Dance", altro brano variato e composito, come si evince dal titolo, anche se dall’andamento più lineare che ricorda i Fairport Convention con l’aggiunta di una spruzzata di psichedelia bucolica e californiana. Un’ascendenza che viene filtrata anche nei brani legati alla più canonica fisionomia pop dei Fleet Foxes: la giga un po’ berbera e un po’ sassone di "Bedouin Dress", l’angelicata melodia (e la bella fuga di chitarra del finale) di "Sim Sala Bim" o la madrigalesca "Lorelai", sontuoso connubio di ritmo sghembo in ¾, circonvoluzioni corali ed evanescenti pennellati di flauto dolce. Formato e sonorità a parte, la sorpresa più piacevole di questo sophomore è che la lussureggiante vena melodica e compositiva di Pecknold non subisca pressoché cali, né perda d’incisività, nell’arco dell’intero l’album. Neanche quando si sporge sul crinale più “americano” strizzando l’occhio ai Byrds più dolci e campestri di "Sweetheart Of The Rodeo" ("Montezuma") o ai Crosby, Stills, Nash & Young ("Someone You’d Admire").

 

Inanellando, altresì, due gemme destinate a brillare a lungo nel lo scarno, ma già prestigioso, song-book delle giovani- vecchie volpi: la title-track, più gospel che blues in effetti, a dispetto del titolo, con le chitarre incalzanti e l’afflato innodico che diviene toccante purezza western nella seconda parte, come pure toccante, anzi commovente, nella sua frugalità di sonetto field per chitarra e voce è la bellissima "Blue Spotted Tail". Un bisogno di semplicità e sincerità che si rispecchia nella meditabonda e ironica spiritualità francescana dei testi Pecknold, quando si chiede se non sia tutta un’illusione creata ad arte per afferrare il senso delle nostre azioni (“I wonder if i’ll see any faces above me/ Or just crack in the ceiling/ Nobody else to blame” in "Montezuma") o si fa piccolo piccolo di fronte all’assurdità e all’ingiustizia del mondo, cercando rifugio nella saggezza delle proprie mani e delle loro origini contadine (“If I had an orchard, I'd work till I'm raw/ If I had an orchard, I'd work till I'm sore/ And you would wait tables and soon run the store” in "Helplessness Blues").

Un’eccellente conferma quella del gruppo di Seattle, che ribadisce e se possibile accresce l’impressione di straordinaria padronanza e maturità già mostrata all’esordio, evidenziando una crescita lenta ma certosina e costante, una capacità di trasformarsi per gradi, restando fedeli a se stessi senza incorrere nello stereotipo della ripetizione.

C Commenti

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loson alle 10:40 del 26 aprile 2011 ha scritto:

Mmm... I riferimenti a folk progressivo, Fairport Convention (sempre siano lodati), e in misura minore CSN&Y, mi spingono quasi controvoglia (eh eh) ad ascoltarmi il disco. Sempre bravissimo, Simon.

Filippo Maradei (ha votato 8 questo disco) alle 11:11 del 26 aprile 2011 ha scritto:

Ma l'omonimo lo conosci, sì?

loson alle 11:36 del 26 aprile 2011 ha scritto:

RE:

Sì, e lo odio.

Filippo Maradei (ha votato 8 questo disco) alle 11:46 del 26 aprile 2011 ha scritto:

RE: RE:

*Colpo al cuore per Pippo* Allora la vedo dura pure per questo... prova con "Sim Sala Bim" o "Helplessness Blues" sul Tubo, senti un po'che dice. Sappi che sono con te comunque vada, pat-pat.

loson alle 11:53 del 26 aprile 2011 ha scritto:

RE: RE: RE:

Ma infatti mi ero ripromesso di starci alla larga... XD E' che nel primo non avevo sentito richami ai Fairport o al folk strettamente progressivo, e vederli menzionati qui mi ha incuriosito.

bill_carson (ha votato 5 questo disco) alle 11:56 del 26 aprile 2011 ha scritto:

due palle...

melodie copiatissime.

Charisteas (ha votato 5 questo disco) alle 13:25 del 26 aprile 2011 ha scritto:

In uno slancio di follia comprai il primo disco senza aver mai ascoltato nulla di questi americani. Ora lo utilizzo per i momenti di insonnia. Questo è un pochettino meglio, la title track è carina, ma sottoscrivo il commento precedente: dopo 20 minuti ti fan due palle così...

Filippo Maradei (ha votato 8 questo disco) alle 12:13 del 27 aprile 2011 ha scritto:

Sono loro, hanno cambiato poco come diceva Simone, ma non sono loro: è un album abbastanza diverso dal primo, più pesante e faticoso per approccio, a tratti impenetrabile, e di certo non adatto a un ascolto veloce. I pezzi ci sono, forse fin troppi (alcuni, pochi per la verità, paiono anche riempitivi), ma c'è senz'altro un lavoro imponente dietro, una cura ancora maggiore per arrangiamenti e ritornelli; all'inizio si presenta forse meno immediato e più distante dell'omonimo, ma le emozioni non tardano troppo ad arrivare (l'incredibile excursus tra folk cristallino e increspature jazzy stridenti di "The Shrine/An Argument", la galoppante e danzereccia "Sim Sala Bim", il misticismo agreste e quasi orientale nel ritornello di "Bedouin Dress", l'afflato cantautorale lieve e spirituale di "Blue Spotted Tail"...). Allo stesso livello dell'omonimo, quindi, merita davvero di essere ascoltato, ma vissuto e ricordato per altri motivi. I complimenti a Simone in questo non sono affatto scontati, c'era il rischio per chiunque di perdersi tra le pieghe pastorali del primo e riproporre una recensione gemella.

Wrinzo (ha votato 7 questo disco) alle 12:50 del 27 aprile 2011 ha scritto:

Io trovo le melodie di questo album curatissime e molto interessante. E' difficile, nel folk, uscire da un certo tipo di melodie ed è ovvio che poi si cada nel riferimento verso qualche predecessore, anche involontariamente. Come già detto, trovo questo album un buon lavoro. Pace

bill_carson (ha votato 5 questo disco) alle 9:07 del 28 aprile 2011 ha scritto:

intendiamoci

scrivere canzoni come he doesn't know why(per esempio) non è da tutti e anch'io avevo acquistato l'esordio, ma dopo due settimane di ascolto mi sono andati a noia. e nel complesso li trovo un pochino stucchevoli.

è che fanno scattare nel recensore la sindrome "i miei cicciniii", quindi giù recensioni positive.

come il primo anche questo ha si e no 3-4 canzoni realmente in interessanti.

bill_carson (ha votato 5 questo disco) alle 9:12 del 28 aprile 2011 ha scritto:

le melodie

no, io non sono tanto severo sul discorso dell'originalità, pero' trovo Mykonos uno delle loro melodie più belle e mi infastidisce che sia copiata pari pari da Ohio di Neil Young. in generale sull'argomento riscontro un minimo di incoerenza: si è indulgenti con le band che apprezziamo, lo si considera un difetto insopportabile(nei Crystal Stilts?) per le band che non ci piacciono. decidiamoci.

nebraska82 (ha votato 7 questo disco) alle 22:31 del 28 aprile 2011 ha scritto:

buon album.

Alessandro Pascale (ha votato 5 questo disco) alle 12:12 del 9 maggio 2011 ha scritto:

tonfo clamoroso

REBBY (ha votato 5 questo disco) alle 8:40 del 25 maggio 2011 ha scritto:

"E' un album abbastanza diverso dal primo, più pesante e faticoso per approccio, a tratti impenetrabile, e di certo non adatto ad un ascolto veloce." Condivido questa affermazione di Filippo (io direi anche esageratamente cerebrale, poco comunicativo), ma condivido anche quella di IraKaplan ("nel complesso li trovo un pochino stucchevoli"). E allora che fare? Dopo 4/5 ascolti a modo (modo masochistico eheh) l'impressione è quella che il primo ci fa un figurone al confronto e siccome l'omonimo è per me un album appena discreto...

target (ha votato 5 questo disco) alle 9:36 del 25 maggio 2011 ha scritto:

E io cito Rebby, comprese le sue citazioni. Sicché si va a finire, più o meno, sul giudizio tranchant di Peasy (ma togliendo "clamoroso", tanto che l'impressione è che in giro il disco stia piacendo). Per me siamo tra il 4 e il 5.

Marco_Biasio (ha votato 5 questo disco) alle 16:33 del 26 maggio 2011 ha scritto:

Li ho sempre ritenuti un po' sopravvalutati. Intendiamoci, l'esordio è un buon disco. Nulla, però, per cui strapparsi volontariamente i capelli. Questo seguito è suonato meglio ed è più unitario, ma allo stesso tempo è terribilmente vecchieggiante e, sicuramente, più che stucchevole, eccessivamente lambiccato.

ozzy(d) alle 16:50 del 26 maggio 2011 ha scritto:

mynkonos sembra ohio di neil young rifatta dagli arcade fire coi loro coretti da oratorio; una cose che non si puo' proprio sentire......

REBBY (ha votato 5 questo disco) alle 17:35 del 26 maggio 2011 ha scritto:

Mykonos ( che è del 2008 e tanta acqua e passata sotto i ponti...) in quest'album non c'è e le armonizzazioni corali dei Fleet foxes sono molto diverse da quelle degli Arcade fire (ricordano semmai CSN&Y o gruppi limitrofi). Sicuro Gully che anche per te il gruppo canadese non sia "come le toghe rosse, quando c'è qualcosa che non piace spuntano sempre fuori"? eheh

ozzy(d) alle 18:09 del 26 maggio 2011 ha scritto:

lo so bene che mynkonos non è in questo disco, che infatti non ho votato se noti bene caro rebby ghghghgh.....a me le citate armonie vocali sembrano lontane anni luce dal pathos dei migliori CSNY, ma ricordano la coralità innocua e anodina dell indie rock anni zero, sorry.

REBBY (ha votato 5 questo disco) alle 18:31 del 26 maggio 2011 ha scritto:

Lo so bene che lo sai bene, anche che le loro armonizzazioni vocali RICORDANO semmai CSNY (anch'io preferisco ascoltare Deja vu che questo eh) che gli Arcade fire ... Non è che nel nuovo millenio all'improvviso tutte le band scoreggiano tutte nello stesso modo eh

ozzy(d) alle 21:36 del 26 maggio 2011 ha scritto:

eh ma mica cito gli arcade fire ovunque anche se frecciate a loro ne ho fatte tante! ovvio che quel tipo di country rock americano (che poi diciamocelo non è proprio il massimo, cioé cento volte meglio young e crosby solisti di CSNY) è la principale influenza ma a me sembra evidente anche una filigrana AF in cui coretti corali Ua Ua Ua Ua ghghgh

The musical box (ha votato 8 questo disco) alle 21:55 del 27 maggio 2011 ha scritto:

devastante

bill_carson (ha votato 5 questo disco) alle 19:08 del 28 maggio 2011 ha scritto:

perchè...?

ce l'avete così tanto con gli AF? secondo me è proprio difficile associare le aromonie dei FF a quelle degli AF che peraltro non mi pare puntino più di tanto sulle armonie vocali. al di là degli AF secondo me attualmente la scena canadese in generale offre un sacco di band che interpretano la materia pop-rock con intelligenza e gusto. per dire gli Hey Rosetta! hanno fatto un disco con dei pezzi veramente belli, imho e loro potrebbero essere descritti come una via di mezzo tra AF e Fleet Foxes. perdonate la digressione

bill_carson (ha votato 5 questo disco) alle 20:37 del 2 giugno 2011 ha scritto:

che poi i "coretti da oratorio"

sarebbero più quelli dei Fleet Foxes, che si rifanno ai Beach Boys. le armonie rotonde e precise dei Beach Boys ricordano proprio i cori da chiesa. Brian Wilson s'è specializzato nelle armonie vocali dilettandosi sin da piccolo ad armonizzare con i fratelli le canzoni di Natale.

lev (ha votato 6 questo disco) alle 20:43 del 16 giugno 2011 ha scritto:

tra alti e bassi 6,5. l'impressione è che ci abbiano lavorato molto e messa tutta per fare un gran disco. ma i risultati non mi paiono all'altezza delle loro ambizioni. io personalmente preferisco la freschezza e la spontaneità dell'esordio.

NathanAdler77 (ha votato 8 questo disco) alle 0:16 del 3 luglio 2011 ha scritto:

Sim Sala Bim

Il prode Robin Pecknold e soci tornano con un lavoro meno "epidermico" ma strutturalmente più denso e profondo dell'esordio 2008: quasi abbandonata la soffice coperta di Beach Boys bucolici, ora siamo dalle parti del Donovan più psichedelico, di Roy Harper, del Van Morrison astrale e dei Buffalo Springfield...Gran disco, evocativo e debitore quanto volete della gloria che fu ma comunque gran disco. "Bedouin Dress", la traccia omonima e "The Shrine\An Argument" (notevole lo stacco free-jazz dopo sei minuti e spicci) sugli scudi. Recensione del Simon al solito perfetta.

ulanbator86 (ha votato 8 questo disco) alle 19:48 del 29 febbraio 2012 ha scritto:

Inferore all'esordio come composizioni e nell'uso dei cori ma non so come e perchè questo disco lo devo ascoltare spesso...come se fosse un esigenza per la tranquillità che mi infonde...aldilà che sia derivativo (voglio dire, le note sono 7.....) è una cosa che non mi turba, non mi fa apprezzare meno quest'album....l'inserto jazz in THE Shrine/an Argument è un tocco in più ad un pezzo molto suggestivo che tocca l'apice nell'acuto dell'intro che sfocia poi in un apertura melodica spiazzante e splendente...

ThirdEye (ha votato 7 questo disco) alle 3:26 del 5 maggio 2012 ha scritto:

Buon disco. Bucolico..

The musical box (ha votato 8 questo disco) alle 1:16 del 25 febbraio 2015 ha scritto:

Un disco che col tempo si conferma stupendo e rischioso...dal vivo davvero una sorpresa in positivo..melodie non accattivanti come forse era successo nel primo e noia che proprio non esiste

The musical box (ha votato 8 questo disco) alle 1:17 del 25 febbraio 2015 ha scritto:

The shrine/an argument capolavoro!!!

Jacopo Santoro (ha votato 8 questo disco) alle 13:19 del 14 febbraio 2016 ha scritto:

Folk di altissimo livello, per musiche e testi (magnifici e metaforici). Strutture dei brani micidiali, lavoro di cori sontuoso. Qualcuno qui ha detto, giustamente, un disco dalle atmosfere bucoliche. Di certo è un album ambizioso, sfaccettato, sinfonico. 'Montezuma' e 'Sim Sala Bim' (che finale!) sugli scudi. Ma il pezzo clamoroso rimane la title-track: lacrime e amore.