Julia Holter
Have You In My Wilderness
«A sea of flashing light / I'm blinded by it», canta Julia Holter in Feel You. E poi, in Sea Calls Me Home: «I can't swim / Its lucidity / So clear». Abbacinati e immobilizzati da troppa luce. Come scriveva Montale in Gloria del disteso mezzogiorno: «più si mostrano d'attorno / per troppa luce, le parvenze, falbe». Così è il quarto disco di Julia Holter: talmente abbagliante (e bello) da lasciare quasi disorientati.
È, certo, il disco in cui la trentenne di Los Angeles flirta di più con la melodia e con la forma-canzone tradizionale, ma a me sembra che la cifra di Have You In My Wilderness sia, ancor più, la solarità, e una solarità tutta di questa terra, di cui si può avvertire il calore, tanto più in un confronto diretto con il suo predecessore, Loud City Song, che viaggiava flottante a mezzaria, o altissimo, in galleggiamento ai piani superiori. Ciò non significa che sia un disco manchevole di grazia: posto che non credo che Holter sia in grado di partorire qualcosa che ne sia privo, Have You In My Wilderness rimane un album allagato da una leggerezza al suo livello più nobile, tra archi, fiati, piano, con il contrabbasso a tenere molti pezzi tra fusion e vapori jazzy (Vasquez, con splendido intermezzo in cui ogni strumento si perde e poi si ritrova), fino a episodi e passaggi di sapore propriamente classico (il finale di Silhouette). La cura nellarrangiamento dei pezzi è strepitosa (produce Cole MGN, già negli Haunted Graffiti pinkiani) ciò che conferisce bellezza già di per sé.
Spetta proprio alla voce di Julia Holter e alla sua interpretazione più aperta, in primo piano e ormai sciolta da certi bizantinismi che ancora decoravano i primi due dischi, il compito di dare alla maggior parte di questi dieci brani una consistenza purissima e però tutta da toccare, calda quella della luce che acceca. Feel you, con il suo passo irregolare e i suoi cori, è un incanto, che gli archi e lo spoken word a fine pezzo esaltano, così come i trionfi di Sea Calls Me Home e Everytime Boots (con passo quasi da vaudeville), o il finale della title-track, dove si ricorre a un crescendo atteso eppure emozionante (dove si intona «tell me why do I feel you running away» ed entra la viola, è da brividi). Può sembrare, a tratti, che Holter drammatizzi, reciti una parte (in "How Long" pare quasi "teutonicizzare" la pronuncia per citare Nico), allestisca lo scenario (forse solo My Brightest Diamond, nel passato recente, proponeva quacosa di simile), ma non c'è mai l'impressione della posa.
E se non mancano i pezzi più scuri (Night Song), dove Holter sfoggia pure i toni bassi, accennando un intimismo notturno che si sfa presto in dolcezza, gli apici rimangono i momenti più elaborati, nei quali riemerge la base avanguardistica degli esordi e sembra perdersi o quanto meno sfilacciarsi (ma mai del tutto) la struttura del brano, per cui si tratta di procedere quasi a tentoni, anche allennesimo ascolto, come in unimprovvisazione continua che germina da se stessa per autoesaltazione (Lucette Stranded on the Island), e in questo senso Betsy on the Roof suona alle mie orecchie come il vero capolavoro di tutta la discografia di Holter piano e voce, e quindi una piroetta spinta dai primi archi in lontananza (235) e poi, con lingresso della batteria, fatta giravoltare addosso a chi ascolta a furia di violini che si impennano e incroci vocali, mentre Holter invoca una sibilla senza risposte e direzioni, straziata dal desiderio («it's just about a deep and desperate search for something. It doesn't matter what it is», ha detto sul pezzo), enigmatica come molti dei testi, pieni di vuoti e omissioni.
Musica al grado più alto.
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