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R Recensione

6,5/10

Julia Kent

Character

Sto attraversando un periodo particolare, che ben facilmente – e felicemente – si potrebbe sintetizzare con il motto “le donne col violoncello salveranno il mondo”. Non per hipsterismo: lo credo davvero. Specie se poi la donna non è una donna qualsiasi, ma Julia Kent, sopraffina musicista il cui gusto estetico (o estetizzante?) dello strumento è tale da catturare, immediatamente, nella sua orbita. Dapprima voce lirica in ombra tra le più note ed apprezzate, nella formazione di preparati professionisti che danza sulle trine degli angelici timbri di Antony Hegarty, Julia ha intrapreso – da un quinquennio almeno – un percorso di rivincita personale, conquistato a suon di apparizioni, collaborazioni, incontri e scontri con colleghi del mestiere da lei anche lontanissimi (non solo geograficamente) e, soprattutto, una discografia autografa il cui volume sembra destinato inesorabilmente a crescere. Il più classico degli “hot spots”, in sintesi. In pratica: perché? Come Julia Kent è maturata fino a ricoprire il ruolo, eminente, che si ritrova a difendere oggi?

Ascoltando “Character”, la tappa introspettiva della trilogia che ha già visto scorrere gli aeroporti di “Delay” (2007) e i landscapes di “Green And Grey” (2011), la risposta sorge concisa: questa ragazza ha del talento. E sì che il pantano in cui ci si dibatte è potenzialmente ferale, l’ambient neoclassico esploso una decade fa, visione degli spazi fisici ed astratti marcatamente romantica, per certi versi silenziosa e isolazionista, esca per i non-luoghi di Augè e lama concettualmente spuntata dopo la canonica tornata di ipersfruttamento. “Character”, tuttavia, è puro prodotto di casa Kent, e non di alcova Cooper, o di stamberga Willenbring: l’emergere di un complesso reticolato emotivo – definibile, per la sua articolazione, “femminile” a tutto tondo – dalle viscere di una materia musicale anch’essa ondivaga, elaborata, indefinita nel suo non porsi precisi segmenti d’inizio e di fine. Julia Kent vive attraverso il suo violoncello, il violoncello stesso è voce incorporea, lamento decadente che si amplifica e si interseca con precisa soluzione di continuità.

Non è disco facile, “Character”, specie nei frangenti in cui lo scollamento destrutturale appare evidente, perso in ronzii e drone d’oltretomba, masse informi di effetti che il solo violoncello sembra fisicamente impossibilitato a produrre (il contrasto tra l’oscurità di “Kingdom” e il palpitante melismo di “Only Child” è, a tal proposito, davvero stridente). Ma merita di essere cercato, ascoltato, seguito con attenzione. Sebbene Julia scelga sovente singole note, linee melodiche minimali sulle quali impostare un discorso di rifrazione e loop ritmico, questo non le impedisce di esibire il virtuosismo della musicista classica (tutta da ammirare l’apertura tentacolare di “Transportation”, crepuscolare saggio di armonizzazione in minore, che viene remixata in una splendida versione, a fine tracklist, dagli svedesi Roll The Dice), di spostare strada facendo le coordinate su coincidenze post rock (di questo si occupa “Intent”, che sfrega gli archetti sopra aggiunte essenziali di clavicembalo, pianoforte e palpitazioni sintetiche: Paolo Spaccamonti avrà sicuramente apprezzato) o di farsi più dolce e sottile, sensibilmente più cinematica (“Nina And Oscar”). Affiorano sprazzi di stasi nella scrittura dei brani più drammatici (una “Tourbillon” gallomane con insistito bordone sul fondo) e, quando la postura s’irrigidisce troppo, l’ascolto s’ingessa di pari passo (“Flicker”, per quanto splendida, andava un po’ semplificata), ma non sono che il fisiologico rovescio della medaglia di un’artista che sempre si dimostra capace di sfidare sé stessa ed i propri limiti.

Ripescaggio vitale. Sapete perché? Perché le donne con il violoncello salveranno il mondo.

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Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 1 voto.
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Gio Crown 6,5/10

C Commenti

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Gio Crown (ha votato 6,5 questo disco) alle 13:59 del 17 giugno 2013 ha scritto:

Bello!!! Tuttavia....in quali rapporti è Julia Kent con Teho Teardo? Quante sonorità hanno in comune! L'uso degli archi così suggestivo, pieni di echi soprannaturali; il malinconico a volte cupo suono del violoncello, che però non mette mai tristezza solo ti trova il cuore e ti commuove; il lento snodarsi della melodia dolce e irresistibile; l'introspezione sottesa in tutto il disco, come di un'anima che cerca se stessa nell'universo.

Nel complesso si potrebbe rimproverare forse una certa monotonia nel succedersi dei brani. Il recensore ha preferito definirla come "lamento decadente che si amplifica e si interseca con precisa soluzione di continuità". Come lui, penso che che ciò sia dovuto al fatto che lei è una violoncellista e il violoncello impera nel corso del disco. Comunque Preferisco i brani dove intervengono altri strumenti (transportation; kingdom; salute; Nina and Oscar), ma tutto il disco è un succedersi di magnifiche sensazioni procurate dallo struggente "lamento" del violoncello.