Kadhja Bonet
Childqueen
Non metto in dubbio che Kadhja Bonet sia una ragazza adorabile, ma almeno a giudicare dalle esternazioni social deve avere un carattere un tantino bizzarro: quanto basta per affermare di essere nata nello spazio, nel 1784, in groppa ad un verde pezzato fatto di spuma marina, e di essersi poi reincarnata in un corpo umano. Freak di tutto il mondo, unitevi: o dellarte di non prendersi mai sul serio, questa benedetta. Facezie a parte, però, Kadhja Bonet è anche e soprattutto uninterprete e polistrumentista di grande spessore che, appena un paio danni fa, fece il botto con lEP desordio (poi ampliato a full length vero e proprio), The Visitor: un sofisticato gioiello di retrò-pop soul privo di significativi termini di paragone nel recente passato, su cui il nostro Francesco Targhetta spese tutte le (belle) parole che si potessero spendere. Disco importante, oggi, questo sophomore Childqueen, composto a spizzichi e bocconi negli intervalli del precedente tour promozionale: davanti ad esso, la responsabilità di dare continuità e promuovere la maturità dellenorme e comprovato talento di Kadhja.
Come per il first act, se in studio la cantautrice americana lavora in completa autonomia, dal vivo si avvale di musicisti dotati ed affidabili cui assegnare le ambiziose partiture composte di proprio pugno. La scrittura della prima metà non sembra perdere un colpo e in più punti i risultati, anche dopo numerosi ascolti, non smettono di stupire per respiro e articolazione. Lonirica, vaporosa lallazione di Procession, che alza con teatralità il sipario sugli attori protagonisti, sviluppa con copiosa abbondanza strumentale il senso scenico di Earth Birth, intarsiandolo con arabeschi di flauto e divertendosi ad arruffarne la conduzione: poi cala il rondò violinistico ad introdurre la title track, nuova Honeycomb e giardino delle delizie che aggiorna la lezione del David Axelrod di Songs Of Innocence e Songs Of Experience ai tempi del trip hop. I pezzi da novanta sono dietro langolo e non tardano a manifestarsi: Another Time Lover (con apertura-chiusura elegiache e non comunicanti, un vezzo quasi holteriano) è un sensuale soul-hop di velluto, cullato tra sfrangiature di tastiera ed echi di bolle che scoppiano (!), nel cui ritornello Kadhja modula larzigogolato salto armonico con voluttà virtuosistica; Delphine è un drammatico, passionale lento allombra di Moog e rullante, forse un attimino troppo lungo; Thoughts Around Tea ne è il ribaltamento estetico, un girotondo pop art che discioglie nella psichedelia le melodie dei girl groups pre-Motown.
Meno brillante ed un filo spuntata una seconda metà in cui le idee cominciano a mordersi la coda, tendendo verso sempre lo stesso centro. Se Joy è un dramma di chamber music performativa mimetizzato in una ciclopica cornucopia strumentale (tutta la formazione classica di Kadhja, qui dentro) e Wings un madrigale folk travestito da soul orchestrale, già il singolo Mother Maybe mostra di non saper gestire al meglio il suo discreto gancio melodico, annegandolo sul finale in uninfinita e prescindibile sequela di vocalizzi che ne trascinano oltremisura la durata: Second Wind, poi, è uno stanco close up narcolettico che inanella una sfilza di luoghi comuni del jazz vocale (con tanto di coda che, per un attimo, sembra addirittura ricalcare What A Wonderful World). Nostalgia, strategicamente architettata come hidden track, annulla infine le rotondità di Procession in un unico flusso fonosimbolico, un mantra psichedelico che sinterrompe ex abrupto prima della definitiva smaterializzazione.
Ad un passo dallindiscutibile consacrazione, Kadhja decide di fare un passo avanti e uno di lato. Forse è una strategia per prendere tempo ed è in arrivo il fido pezzato, con cui balzare direttamente alle alte sfere? Chi si accontenta, per il momento, gode (e pure parecchio).
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