Coldplay
Parachutes
Quando sarà ora di tirare le somme, scegliendo(chiamati a scegliere) i dischi più rappresentativi di questo decennio, che vi piaccia oppure no, saremo “costretti” a fare il nome anche di “Parachutes”, piccolo gioiellino che vide la luce agli albori del decennio per opera di quattro ex compagni d’università con la passione comune per la buona musica.
Con una manciata di Ep pubblicati tra il 1998 e il 1999 (Il SafetyEp, il Brothers And Sisters Ep e il Blue Rooom Ep) e una discreta considerazione da parte dei media, il gruppo pubblica il suo preziosissimo debutto: Il disco con il mappamondo o per i più distratti, il disco di “Yellow”.
Non si può e soprattutto non si deve però in nessun modo sminuire o minimizzare questo lavoro, limitando la sua importanza solamente a quel singolo episodio e rendendo quindi insignificante l’opera nel suo complesso.
Da “Dont’ Panic” fino all’ultima “Everything Not Lost” o meglio ancora la ghost track “Life Is For Living” infatti, “Parachutes” mantiene alto il livello qualitativo delle sue composizioni che ora si cullano tra le malinconiche note di un pianoforte, suonato da un trasognante Chris Martin, per poi magari trastullarsi in semplici ma efficaci riff partoriti dalla chitarra “pulita” e carica di delay di Jonny Buckland.
La parola d’ordine come avrete ben capito è: Semplicità.
Il meraviglioso ed indiscusso fascino della semplicità.
Canzoni “minimali” e “povere” di suoni ma ricche di emozioni, una produzione leggera e mai invasiva, testi che parlano per lo più d’amore corrisposto e non e infine una passione dichiarata per le melodie tenui e malinconiche (da li il discutibile accostamento al neonato new acoustic movement).
La musica dei Coldplay è tutta qui, nuda e cruda, senza effetti particolari, senza trucchi, soltanto del buon pop come in “Don’t Panic” che riesce fin da subito a catturare l’attenzione di chi sta dietro lo stereo con le cuffie ben salde sul capo, avvolgendolo in una canzone breve ma intensa, ornata di un testo ottimista che attacca si un mondo “malato” e “abusato”, ma riesce a trovare in esso un possibile appoggio su cui contare e sperare, una ragione per la quale vivere in questo magnifico mondo.
“Don’t Panic”, così come “High Speed” non è a tutti gli effetti una vera e propria sorpresa per i fan di vecchia data che la conoscevano già dai tempi dal “Blue Room Ep”.
Questa volta però il pezzo viene appositamente rivisitato per l’occasione e, a differenza dell’originale può contare su di un ritmo di batteria piuttosto sincopato, decisamente più varo e completo e di un arrangiamento meno d’atmosfera ma più concreto.
Chris Martin appare decisamente a suo agio sia nelle composizioni per pianoforte come “Everything Not Lost” fortemente influenzata dai Radiohead e con il classico finale prolungato alla Beatles, ma anche nelle bellissime e acustiche “We Never Change” struggente e carica di pathos, “Spies” annunciata da una sirena dal sapore thriller e “Sparks” dove una linea melodica di basso decisamente indovinata si intreccia con una voce di un insolito e struggente Chris Martin, padrone di registri vocali bassi come non lo sono mai stati e di una voce vibrante e ruvida.
L’apice del disco è sicuramente rappresentato dalle splendide “Shiver”, “Yellow” e “Trouble”:
La prima è un continuo alternarsi di sali scendi grazie ai quali la voce di Chris Martin può spaziare così da un falsetto celestiale fino a vibranti e calde tonalità, arrampicarsi in evoluzioni vocali appese ad un riff trascinante e “rocambolesco”, mettendo così in rilievo le sue notevoli doti canore e sollevando più di un paragone con il grandissimo Jeff Buckley.
La seconda, parte invece da un riff chitarristico figlio di Malkmus e dei suoi Pavement per poi svilupparsi in quanto di più orecchiabile si possa immaginare, un verso cullato e un ritornello che ti si appiccica addosso per non mollarti più. Una canzone d’amore splendida e mai banale o ancor peggio mielosa.
Trouble invece è la classica ballata alla coldplay con il classico giro di piano “alla Coldplay”, una struttura compositiva che visto il successo riscontrato, verrà poi ripetuta negli anni diventando così il marchio di fabbrica del gruppo.
La classe strabiliante del quartetto è ancor più rafforzata e confermata quando scopriamo gemme preziose negli episodi più brevi e apparentemente meno rilevanti come la dichiarazione d’amore disperata e mai rassegnata di “Parachutes” dolce intermezzo da quaranta secondi e la “timida” ghost track “Life Is For Leaving” nascosta e non dichiarata. Un inno alla vita e all’amore, perché si sa, è facile commettere degli errori, è facile perdere la fiducia delle persone a noi più care, l’importante è però accorgersi degli sbagli e cercare di porre rimedio magari chiedendo scusa, magari dicendolo tra i versi di una canzone, si perché “ la vita è fatta per essere vissuta, tutti lo sappiamo e non voglio viverla da solo”…
Arrivati fino in fondo, non ci resta che lasciarci trasportare nuovamente da questo generatore di emozioni, schiacciare il tasto play, chiudere gli occhi e riaprirli solamente quando saremo in alta quota, cullati da una musica sincera ed emozionante, solamente allora potremmo aprire il paracadute, prepararci per una dolce discesa e tornare con i piedi per terra alla vita di tutti i giorni.
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