R Recensione

7/10

Aqualung

Memory Man

Aqualung è a tutti gli effetti una “onemanband”.Il tuttofare in questione è Matt Hales.

Britannico, 34 anni e una fissa per il pop fin da quando è ragazzino. Dopo la militanza poco fortunata in band minori e ormai già dimenticate, decide di mettersi in proprio scegliendo così di “dare un nome a tutta la musica da lui proposta dal 2002 in poi”. Aqualung appunto…

Matt scrive, suona e se la canta quasi esclusivamente da solo, assistito però dal preziosissimo supporto della moglie Kim (coautrice di molti pezzi) e di suo fratello Ben che si alterna tra chitarra e basso.

L’uscita di “Strange And Beautiful” (2005) una raccolta per il mercato americano dei brani più rappresentativi dei primi due dischi, l’omonimo(2002) e il successivo “Still Life” (2003), segna il passaggio dalla scuderia della B-Unique a quella della Columbia.

Essendo “Strange And Beautiful” appunto una compilation e non un vero e proprio album di inediti, Memory Man è a tutti gli effetti la sua prima vera e propria prova sotto l’occhio attento e severo di una major.

Registrato a partire dal maggio del 2006 nel suo personale studio nel sud di Londra, questo nuovo capitolo è ancora una volta un disco molto intimo e profondo, con una voce che riesce a far convivere la profondità e il calore di Bono con la paranoia e la dolcezza di Thom Yorke.

Musicalmente siamo dalle parti dei Radiohead e dei Coldplay e di un certo pop “di classe” con qualche rimando agli U2 e, perché no, ai Travis, ma anche ai cantautori dei nostri giorni come Rufus Wainwright, Tom Mcrae e compagnia bella…

A differenza delle precedenti prove però, pare evidente la volontà di dare un certo “tono” e un’anima prettamente più “elettrica” o “sperimentale” alle composizioni, per un risultato un po’ ambizioso ma non per questo negativo. Il pianoforte, perno essenziale e portante nei precedenti episodi, rimane sempre e comunque presente e insostituibile ma perde un po’ del suo “monopolio”.

Il disco guadagna in varietà rispetto ai suoi predecessori, ma perde in materia di personalità, dando così vita a una girandola di rimandi e richiami al passato prossimo e remoto…Emblematica è la chitarra elettrica che tuona interrompendo il dolce tintinnio del piano in “Cindarella”, opening-track che rievoca le tipiche atmosfere elettroacustiche alla “The Bends” e che segna una virata importante rispetto al pop lineare e “spoglio” degli esordi. Ancora Radiohead protagonisti e ispiratori nella successiva “Pressure Suit”.

Quelli più sperimentali, con tanto di batteria elettronica e voce filtrata nei primi secondi del pezzo, e quelli più dolci e delicati, recitati da un piano “leggero” e “morbido”, che accompagna la composizione fino ad una conclusione dovela voce di Matt si avvicina in modo sconcertante a quella di Thom Yorke.

Con “Something To Believe In” si volta pagina, o meglio, cambia il riferimento … Stavolta, a far scuola sono addirittura gli Athlete dell’ultimo “Tourist”, che lasciano poi spazio al solito finale vocalmente parente dell’”alieno” di Oxford

Fino ad arrivare a “Glimmer”, un pezzo dolce e commovente dove un animo cantautoriale, per intederci, alla Damien Rice o alla Tom Mcrae (due possibili riferimenti tra i tanti che vengono alla mente)riesce a dar vita ad una composizione deliziosa e toccante.

Altra canzone, altro rimando: “Vapour Trail” è obiettivamente un buon pezzo, uno di quelli che gli U2 avrebbero potuto scrivere senza particolari sforzi: qui la similitudine con la voce di Bono e la chitarra di The Edge è infatti piuttosto evidente.Un buon pezzo, che viene però “vanificato” da un ritornello azzeccato, questo si, ma “esasperato” e protratto ad oltranza in un finale che non fa altro che appesantire inutilmente la composizione e stancare quindi l’ascoltatore.

Rolls So Deep” è l’episodio sicuramente più “aperto”, solare e brillante del disco: una canzone pop ben concepita e coinvolgente, arricchita da uno xilofono che giocando a rincorrersi con il pianoforte, contribuisce a donare al pezzo maggior “innocenza” e “purezza”, riportandoci alla mente un certo Brendan Benson.

Fin qui poca personalità, ma anche tanta classe ed un esecuzione a tratti impeccabile…Con le successive “The Lake” e “Black Hole” si apre la seconda parte del disco. Tornano nuovamente le atmosfere “in minore”, cupe e malinconiche.

Così è la sussurrata “The Lake”, che sta a metà strada tra i Radiohead di “Hail To The Thief” e il Rufus Wainwright di “Want One O Two” ricordando a tratti anche il Beck più introspettivo di “Sea Change”.

Della stessa natura sembrerebbe pure la successiva “Black Hole” o almeno l’attacco, nuovamente pacato e in punta di piedi, salvo rimangiarsi poi tutto nel finale, prendendone le distanze grazie ad una chitarra “impazzita” e “dissonante”.

A spezzare l’atmosfera malinconica che domina la seconda parte del disco ci pensa “Outside” che prima di abbandonarci definitivamente alle conclusive “Garden Of Love” e “Broken Bones”, due composizioni figlie di un Chris Martin ancora in giovane età e privo quindi di ogni ben che minima influenza del successo, ci riporta nuovamente alle cristalline armonie della “magica” “Roll So Deep” e alle solite influenze del gruppo Irlandese per eccellenza di “Vapour Trail”.

Per gli amanti del pop “di classe” questo è un disco suonato, cantato e soprattutto prodotto con eleganza e mestiere ma che non riesce a tenere nella durata, risultando quindi prolisso e soporifero nel finale.

Per il resto nulla da eccepire, le canzoni ci sono, la voce pure. Forse ci vorrebbe soltanto un pizzico di personalità in più…Un disco sicuramente non essenziale, ma decisamente piacevole.

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