Conor Oberst
Conor Oberst
Oberst on the road. Oberst escapista. Oberst beatnik in Messico. Da depresso compulsivo intruppato in noie post-adolescenziali Oberst da Omaha è passato a simbolismi più ardui, alla disperata ricerca di una via di fuga dall’America infelice che tanto (ferocemente) ha cantato, fino all’ultimo ultra-arrangiato “Cassadaga”. E lo fa come sempre: da eterno pessimista dalla voce spastica. E lo fa bene.
E lo fa (sorpresa!) col suo vero nome: Bright Eyes è lasciato alle spalle e la camarilla della Saddle Creek diventa per l’occasione The Mystic Valley Band (l’album è stato registrato a Tepoztlan, con l’anima azteca ancora strisciante tra i barri e le strade di polvere). È tipico dei folk singers, pare, cambiare nomi col tempo per incanalare le proprie diverse vene e dare ordine alla propria fluvialità: Will Oldham insegna. Ma è anche vero che l’etichetta vuol dire poco: questo lavoro suona come suonava Bright Eyes, con meno gingillamenti decorativi rispetto a “Cassadaga” e meno indugi lo-fi rispetto ai primi tempi. Bright Eyes, voglio dire, avrebbe fatto lo stesso disco: different names for the same thing, direbbe Ben Gibbard.
È vero, in compenso, che il ventottenne del Nebraska ha affinato la propria scrittura – già alta, per la verità, quando il ragazzo lottava ancora contro i brufoli – e che i suoi pezzi si compongono di un impianto testuale sempre più interessante e di spessore: non è poco, anche se non è ancora abbastanza per reggere il confronto col vecchio Dylan, per quanto ne dicano Oberst e i suoi acclamatori. Si sa, però, che la modestia non è di casa a Omaha. Prendere o lasciare.
Tutto il disco, ovviamente self-titled, si costruisce sui temi della fuga e del viaggio, della scoperta e della ricaduta in un sé disilluso che Oberst estende a tutti, anche alla controfigura del giovane “Danny Callahan” («but even western medicine, it couldn't save Danny Callahan»). E allora la disperazione è devastante, come nella struggente “Lenders In The Temple” (momento più alto), perché le vite si consolano del solo fatto che le cose potevano andare peggio («Smile, all that you can feel is gratitude for what has been, ‘cause it did not happen»). Il finale è persino più cupo: nella lunga ballata-litania “Milk Thistle” la sola soluzione che sembra trovare Oberst è la lenta autodistruzione attraverso l’alcol. Vive le roi, le roi est mort.
E la filosofia beat? L’evasione liberatoria del vagabondo deraciné? Non manca. Anzi. Occupa buona parte del disco: la parte più accelerata, da Tom Petty dei bei tempi (“Moab”), la parte dell’alt-country con piano da saloon (“I Don’t Want To Die [In A Hospital]”), la parte folk rock in cui l’estro è a briglie sciolte (“Souled Out!!!”, “Get-Well-Cards”). E pazienza se i giri di accordi e le melodie vocali richiamano a ogni pie’ sospinto episodi dei dischi precedenti: il passato è l’unica cosa da cui non si può fuggire («the past don’t ever quit», “Eagle On A Pole”).
Promosso Oberst. Senza l’eccesso di zelo che appesantiva certi passaggi del disco precedente, il ragazzotto ha ritrovato se stesso (esemplare “Cape Canaveral”). Sradicarsi fa bene, si sa.
Tweet