Miley Cyrus
Miley Cyrus & Her Dead Petz
- I soliti sospetti
Ha del sorprendente la velocità con cui Miley Cyrus & Her Dead Petz è stato rimosso dal dibattito critico, dal contesto culturale poptimistico che della Cyrus ha celebrato - non senza intoppi, ripensamenti, diatribe di ordine morale - le performance irriverenti, lo strusciarsi seminuda sulla palla demolitrice (e su Robin Thicke), l'emancipazione dal personaggio di Hannah Montana (leggasi: dal buonismo Disney). L'ennesima profezia autoavverante di Pitchfork ("it feels like it was built to disintegrate) è stata recepita alla lettera e a tempo di record, senza sbavature.
Poi però si fa un passo indetro, si guarda il quadro nella sua interezza, e ci si accorge che non poteva essere altrimenti: questo è il classico album da accogliere con sospetto (e già sulla cultura del sospetto come possibile radice della paralisi dell'odierna critica indie potrebbe aprirsi una lunga parentesi, ma non è questa la sede). Un sospetto stavolta multidirezionale, inglobante, liquidamente adattabile a ogni frangia critica e di pubblico. Per quanto riguarda il nostro ambito, ossia quello dell'appassionato di pop-rock mediamente colto/consapevole/elitarista, il commento-tipo sarebbe una cosa del genere: Cosa si crede di fare, 'sta zoccoletta bianca? (N.B. Il bianca è opzionale, non essendo noi di SdM intellettuali anglosassoni tendenzialmente ossessionati della ratchet culture.) Vuole giocare a fare la musicista seria? Se pensa di arruffianarsi il pubblico indie è cascata male, di sicuro. E Wayne Coyne? Si è completamente fritto il cervello o tenta di restare a galla aggrappandosi alla monnezza? Prima Ke$ha, adesso quest'altra... Mah, patetico proprio. E santiddio, quanti riempitivi in questo disco. E' autoindulgenza pura, chi lo nega è ipocrita. 'A bella, tornatene a slinguazzare tutto quello che si muove, la musica vera non fa' per te.
Innanzitutto è bene ricordare che, nonostante la notorietà acquisita da adolescente in campo teen pop, è nel country e nel folk-rock che la Cyrus ha le sue vere radici musicali. Ancora oggi, nei suoi concerti, si riserva uno spazio prevalentemente unplugged dove coverizzare, con risultati alterni, brani di Dolly Parton (il suo idolo, nonché madrina di battesimo!), Bob Dylan, Melanie Safka, Paul Simon, Nina Simone, Fleetwood Mac, sfiorando addirittura territori più heavy quando a occupare la scena sono brani di Led Zeppelin, The Replacements, Joan Jett e perfino Arctic Monkeys. Considerarla del tutto estranea alla musica vera (ossia eseguita con strumentazione organica e, bene o male, riconucibile ai filoni più saccheggiati dal pubblico integralista di estrazione rock) appare, pertanto, come una palese forzatura.
I processi alle intenzioni, si sa, restano pratica tra le più inutili e dannose ever, e il caso di specie non fa' eccezione. Anche prendendo per buona l'ipotesi che il disco nasca da logiche perverse atte ad assicurare visibilità alla ditta Cyrus & Coyne, così che entrambi possano tirare acqua ciascuno al proprio mulino (Coyne per acquisire rievanza nel nuovo ordine poptimistico da alcuni considerato intaccabile ma fin troppo demonizzato, la Cyrus per guadagnare punti presso gli hipster), perchè ciò dovrebbe comprometterne la bontà di manufatto artistico? O meglio: in che modo questo assunto indimostrabile influisce sulla nostra percezione dell'opera, sulla nostra capacità di estrarre (ma sarebbe più corretto dire creare) da essa la bellezza?
Ovviamente, entrano in gioco i molteplici livelli di autenticità ai quali distinte categorie di ascoltatori - nel nostro caso antitetiche: da una parte il pubblico generalista, dall'altra quello selezionato ma altrettanto incasellabile (anche come segmento di mercato) dell'indie-rock - ricollegano il presentarsi e l'agire dei loro beniamini: nello specifico l'aura di purezza, la ricerca di quella forma d'espressione musicale spontanea, immediata e assolutamente non commerciale che, nelle parole dello studioso Benjamin Filene in Romancing the Folk: Public Memory and American Roots Music (2000), appare inevitabilmente viziata eppure ancora bramata, consciamente o meno. Da qui a traslare simili concetti nel campo minato delle motivazioni che guidano l'artista nel suo percorso, beh, il passo è breve, anzi inevitabile se si guarda a quel vasto bacino di fruitori per i quali suddette istanze hanno ancora la consistenza di valore aggiunto.
L'altro punto, ossia l'inquadramento dell'intera operazione come capriccio, mi pare meno contestabile ma non per questo riprovevole. Alcuni tra i frutti più squisiti della cultura popolare nascono come sfizio: traggono energia e sostentamento dal ludico desiderio di superare i nostri limiti, cimentandoci in campi/attività che non vengono riconosciuti come di nostra competenza; germogliano da una sfida che l'artista accetta con se stesso e, nel caso, con la sua "utenza". Pertanto, liquidare l'opera - una qualsiasi opera - con la formula "an indulgent collection of experiments that exist for no other reason than because they can" suona non solo un tantinello pretestuoso, ma perfino comico (un artista non indulgente è quasi una contraddizione in termini); senza contare che siffatta obiezione, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, è non di rado applicata a manifestazioni culturali in aperto conflitto con schemi consolidati, quando non con le nostre convinzioni estetiche, etiche, politiche e sociali. In una parola: col nostro gusto.
Miley Cyrus ha giocato, si è messa in discussione e il risultato è una delle sorprese più inaspettate del 2015. Ciò che ha urtato/disinteressato il pubblico - quello dei Flaming Lips come quello della Cyrus, indistintamente - e, temo, gran parte della critica, anche la più aperta al mainstream (la quale continua ad avere un rapporto problematico con l'ex-eroina Disney, altro aspetto sul quale sarà il caso di ritornare in futuro), non è tanto il progetto in astratto e neppure la qualità della musica (pure se molti, forse per ripiego, hanno voluto pigiare questo tasto) quanto, molto banalmente, la circostanza fattuale che ad averlo messo in atto sia stata lei.
- In memoria di Floyd
Sono bastati 50.000 dollari alla Cyrus per finanziare Miley Cyrus & The Dead Petz, contro i due milioni di budget del precedente Bangerz (2013). La RCA non è stata coinvolta nella realizzazione, né tantomeno informata sui progressi delle session: tutto si è svolto nella massima indipendenza, durante gli ultimi due anni, quasi a inframezzare il party time, il dolore per la perdita dell'amato cagnetto e gli sballi con l'amico Wayne Coyne, offertosi di aiutarla nel realizzare questo progetto. Mike Will Made It e Oren Yoel (già con lei in Bangerz) hanno entrambi contribuito alla resa finale, co-producendo alcune delle tracce-chiave, mentre i featuring di Big Sean, Ariel Pink e Sarah Barthel del duo Phantogram sono stati le ciliegine sulla torta. L'album è stato rilasciato gratuitamente via streaming il 30 Agosto, col pieno appoggio della label. A supporto dell'album è previsto un tour americano - gustosi alcuni dettagli svelati in rete circa lo show - che terrà impegnati Cyrus e Flaming Lips per i prossimi due mesi.
Ora, chi non vede in tutto questo la prova della libertà creativa - certo, garantita da anni di celebrità e riscontri mercantili, da cos'altro sennò? - di cui gode questa ragazza, beh, non ha che da rivolgersi a un buon oftalmologo. Ke$ha, giusto per nominare un'altra popstar entrata nelle grazie di mister Coyne, è stata a un passo dall'incidere un album con i Flaming Lips ma non ce l'ha fatta, invischiata com'era (com'è) in un contratto esclusivo con la Kemosabe Records di Dr. Luke, poi sfociato in dramma personale e giudiziario; Miley, che pure ha beneficiato della produzione di Luke per Wrecking Ball, c'ha messo dieci secondi netti per recidere i loro rapporti. Credo che quest'immagine di una Cyrus più indipendente e consapevole delle sue possibilità stia prendendo alla sprovvista pure i detrattori, quelli del troietta in loop sui forum o che si concedevano il pietismo un po' ipocrita - perchè a copertura di un'ostilità epidermica - del vederla come sfruttata. Sarà semplicistico quanto volete, ma se sfruttamento significa fare quel cavolo che mi pare della mia carriera, quando, dove, come e con chi mi pare, vi prego di sfruttarmi da qui fino alla fine dei miei giorni.
A questo punto è d'uopo una precisazione: Dead Petz non è un album dei Flaming Lips con Miley Cyrus alla voce, come molti hanno frettolosamente - o malignamente - affermato, ma un album nel quale Miley Cyrus interagisce anche con i Flaming Lips. Il fatto stesso che l'opera mantenga unità di tono nonostante l'eterogeneità del materiale e le personalità così diverse che vi hanno collaborato, la dice lunga su quanto la ragazzaccia del Tennessee (produttrice esecutiva, co-produttrice artistica in 12 tracce su 23, autrice o co-autrice di tutti i brani) sia stata il vero catalizzatore, il collante glitterato di questo tour de force sonoro. Insomma, Dead Petz si presenta in tutto e per tutto come album di Miley Cyrus, probabilmente il suo più personale inciso finora.
Un diario strampalato le cui pagine brillano di r&b triste e psichedelico (Fweaky, l'avveniristica Milky Milky Milk, la corale/hippie I Forgive Yiew), cosmic-pop (Space Boots), electro stralunata (Evil Is But A Shadow), siparietti freak-out (tipo il frammento wonky di I'm So Drunk, che in mano a Skream diventerebbe uno sconquassamento di proporzioni gargantuesche), ballate acustiche dalla quinta dimensione (The Floyd Song (Sunrise)), derive estatiche (Miley Tibetan Bowlzzz) quando non esaltazioni alla Spring Breakers (lo psych-trap letteralmente fuori dal mondo di Dooo It!). I suoni sono curati ma pazzoidi, le forme disgregate e ricomposte (l'emorragia emozionale di Tangerine), la voce a tratti filtrata o registrata in modalità quasi lo-fi, con effetti eco piuttosto peculiari: complementi ideali di riflessioni mai così intime (I'm So Scared, sorella stramba e più soul di Adore You), smarrimenti acidi (Tiger Dreams), e soprattutto lamenti catacombali quali Cyrus Skies, "like country Lana Del Rey backed by a choir, except it's Miley pouring her heart out" stando alle parole di Mike Will Made It.
Ma il catalogo di stranezze/prelibatezze non si esaurisce qui. Mi riferisco innanzittutto al passo marziale (sarà mica la Doktor Avalanche?) di 1 Sun, gothic e psichedelica assieme, antitesi dell'afflato sexy che trasuda da Bang Me Box (basso titanico, pianoline e chitarrine cigolanti, testo lesbo-zozzissimo). O ancora Karen Don't Be Sad, grondante country come poteva intenderlo il Beck di Sea Change, che nel minuto finale diventa citazione di My Sweet Lord (George Harrison). Per non parlare di una BB Talk che, nonostante la catchiness, elude facili etichette: ritmica molto anni '90s, gli archi sintetici presi da chissà quale sintetizzatore d'epoca, le strofe con la tipa che blatera (forse attraverso una segreteria telefonica) dei dettagli più assurdi di una "relazione", e il ritornello innodico al pari di una Drinking In L.A. (Bran Van 3000) ma senza esserne, in realtà, parente stretta.
Quasi ogni canzone o frammento ha qualcosa che cattura l'attenzione: sia esso una melodia, un beat, un arrangiamento, una digressione inaspettata, un'interpretazione, un verso che ti si imprime nella corteccia cerebrale. La voce della Cyrus, in particolare, sorprende come mai prima d'ora: aldilà delle tecniche di registrazione e dei trattamenti a cui va incontro nell'interagire con il contesto sonoro, il suo timbro arrochito e dalla forte inflessione nashvilliana regala momenti di esaltazione/spaesamento unici, tanto che ci si meraviglia di come tale aspetto sia stato trascurato nelle recensioni (nonché della scarsa considerazione che di lei si ha come cantante).
In questo senso, Lighter è tra le occasioni più ghiotte per testarne la duttilità, il retroterra emotivo: molteplici le sfumature, le variazioni subdole, i piccoli cambi di accento, di ritmo o di fraseggio che mettono i brividi, specie se inseriti in una canzone la cui struttura rasenta la circolarità, dove l'alternarsi delle sezioni è sfumato eppure irresistibile. Sad ballad d'impianto synth-pop con rhodes in primo piano, bassi che paiono rimpasti di un organo da chiesa nel mix, e parole tagliuzzate o spalmate in cori fantasma: Lighter potrebbe durare venti minuti e non te ne accorgeresti (io almeno non me ne accorgerei), intrappolato come sei nel dolceamaro vibrare di emozioni così primordiali, con le liriche a spaziare dal personale all'universale, dal quotidiano all'extra-ordinario (And I've heard we never truly see ourselves / You gotta leave it up to someone else /To know how beautiful you really are, baby / We never get to see ourselves / Sleeping peacefully next to the ones that we love /We never see us cry, when someone dies, see us cryin / Someone new was born, baby), in ultimo guidate dal desiderio di un altro che ci traduca, che ci spieghi cosa vede rispecchiandosi nelle nostre azioni, nelle nostre debolezze. L'ultima immagine, di una bellezza accecante/inestricabile, si fa' manifesto del senso di smarrimento ed eccitazione che percorre Dead Petz da cima a fondo e che guida Miley Cyrus in questa fase della sua vita: I see a light coming towards me / Moving slowly, but coming quickly at the same time / I think it represents what's going on in my mind.
Tendo a commuovermi con una certa facilità, questo va detto, ma Lighter mi fa' salire le lacrime agli occhi ogni benedetta volta che l'ascolto. Mai mi sarei aspettato di scrivere una cosa simile, credetemi (almeno non di una canzone sua). Così come mai avrei potuto immaginare che un suo album, ancorché superbamente imperfetto e avveniristico, avrebbe finito col diventare così importante per me a livello personale, ma così è la vita. Come ascoltatore, credo non esista sensazione più gratificante del sentirsi indifesi di fronte alla musica, del sentirsi privati dei punti di riferimento che davamo per scontati (quel sentimento di resa di cui ha parlato più volte Brian Eno, ad esempio Blow Up n.88, Settembre 2005). E questo è un (capo)lavoro che mette con le spalle al muro, che costringe a riflettere sul nostro ruolo di fruitori/mediatori, innanzi al quale ci si sente nudi.
Gli ultimi due brani, in apparenza i meno interessanti, si caricano di un significato obliquo e insperato se letti alla luce delle considerazioni svolte finora. Sono in pratica la stessa canzone: Miley sola al pianoforte, accordi e progressioni similari, identico trasporto nell'interpretazione. Con la differenza che il primo è trollaggio puro, il secondo immaginifica narrazione escogitata per dire più di quanto sembri, simbolismo che ambisce a farsi portatore di rivelazione. Su Pablo The Blowfish la Cyrus si strugge per la morte del suo pesciolino, al punto da rivivere il trauma della perdita durante una cena con amici in un sushi bar: la tensione sale, la voce diviene sempre più instabile, partono i singhiozzi e con essi il pianto (finto, dal momento che, non riuscendo a portare avanti la recita, la nostra ragazza interrompe l'esecuzione quasi ridendo). Twinkle Song parla di sogni, buffi (Davie Bowie taught us how to skateboard / But he was shaped like Gumby) o lancinanti che siano (And I had a dream / That you were dying / But I wasn't even crying, I just sang you to sleep), chiudendo ciascun pannello con la domanda But what does it mean? / What does it all mean?, enfatizzata al punto da farsi prima invocazione spiritual, poi urlo disperato nel momento in cui la voce sale di un'ottava.
Ma la vera domanda è: cosa ci dice che non sia anch'essa tutta una finta? Nulla, per il semplice motivo che lo è. E lo è nonostante i sentimenti esposti in tono solenne, nonostante le lacrime (stavolta vere) che la Cyrus ha versato mentre eseguiva il pezzo al SNL. La giustapposizione di questi due estremi, confezionati in modo pressoché identico, sembra volerci far riflettere ancora una volta sul concetto di finzione nell'arte, sul filtro che comunque l'artista, alla stregua di un prestidigitatore, frappone fra sé e il ricevente anche quando, dopo aver creato le condizioni ambientali appropriate (in questo caso la solitudine, la precarietà dell'esecuzione, il climax parossistico), cerca di apparire il più onesto possibile.
Una lettura, quella giustappunto suggerita, forse del tutto estranea agli intenti della Cyrus, nondimeno auspicabile e non priva di elementi a sostegno. Sta a voi, ancora una volta, decidere cosa sia vero e cosa no. Sta a voi scegliere cosa pensare di questo Miley Cyrus & Her Dead Petz, basta che siate consapevoli di quanto siete - siamo - manipolabili (perchè questo è il fine di qualsiasi espressione artistica: manipolarci) e di quanto parziale sia il vostro - come il mio - giudizio. Il senso del gioco (e anche della critica musicale: gioco elaborato, a tratti narcisistico, tanto supponente quanto illuminante) risiede, in ultimo, nel desiderio di condividere, non di convincere. E di giocare non si dovrebbe mai aver timore.
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