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R Recensione

10/10

Fluxus

Pura Lana Vergine

Talvolta la musica può avere uguale o più valore di una fotografia. Ci avete mai pensato? È lo stesso metodo con il quale si è cominciato ad accompagnare una serie di immagini montate fra di loro con un commento sonoro di sottofondo: la nascita del film e della sua soundtrack. Incredibile, poi, come sia una che l’altra, con pochi elementi, riescano a trasmettere un’enorme quantità di informazioni, dettagli, colori, sensazioni. Potere dei cinque sensi (più uno), si potrebbe dire ma, a ben guardare, esiste una differenza fra i due apparati. Perché, se questa ferma la verità – o cosa per essa: “Io fotografo una cosa per sapere a che assomiglia questa cosa quando è fotografata”, diceva il fotoreporter Garry Winogrand – nell’attimo preciso, definitivo di un flash, per poi poter risultare obsoleta anche solo una manciata di istanti più in là (non vale forse il discorso eracliteo del panta rei?), quella riesce a scagliare i suoi anatemi, la sua poesia, le sue cavalcate a briglia sciolta anche a distanza di molti anni, ponendosi come faro, estremo punto di riferimento per generazioni e generazioni, proliferando in mille diversi derivati, segnando un’epoca. Poeti, cantastorie, musicisti come inviati, insomma.

Continuando sulla scia della nostra analogia, fra i reporter migliori che la nostra Italietta dai consumi – e dall’oblio – facile abbia mai avuto, menzione speciale (se dicessi noblesse d’oblige farebbe anche più figo) la meritano i Fluxus, veri e propri storici del Bel Paese allo sfascio attraverso il crollo del Muro, Tangentopoli, Forza Italia, il G8 di Genova e tante, altre, bellissime esclusive nostrane. Spesso mi viene da sorridere quando, nell’entrare in un discorso riguardante il rock italiano degli anni ’90, si individuano come vertici del genere sempre i “soliti” Afterhours e Marlene Kuntz, due formazioni peraltro validissime che, tuttavia, hanno dimostrato di patire il mordente dell’imborghesimento cronologico, almeno per quanto riguarda il discorso su disco. I Fluxus, sfortuna o merito, hanno condiviso una sorte nettamente inferiore a quella dei loro colleghi, di fronte anche ad una sfrontatezza lirica e sonora nettamente più accentuata, ma questo li ha ad un tempo preservati dall’esaurimento artistico e condannati a perpetrare le loro parole, i loro pensieri, i loro riff in una ristretta, fedele cerchia di accoliti. Raccontare storia e vicissitudini del complesso una volta guidato dal cantante e chitarrista Franz Goria, ora in seno ai Petrol, sarebbe molto bello, ma il tempo tanto biasimato appena qui sopra è anche un pessimo tiranno, perciò ci limiteremo ad un paio di cenni generali, giusto per orientare il neofita.

Originatisi nella Torino nichilista, matrigna e grigia dell’hardcore “militante” degli anni ’80, radice di gruppi come gli storici Negazione, i dimenticati Nerorgasmo, i misconosciuti Raw Power, i Fluxus – i cui membri pure venivano da esperienze pregresse molto più legate al post punk e alla new wave – hanno saputo da subito differenziarsi dalla pletora di formazioni che pullulavano all’epoca, accogliendo nel loro suono alcuni elementi hc (lo scream, il riffaggio insistente) ed imbastardendone altri con il noise rock americano, il thrash old school e gli strascichi metallici dei Melvins, periodo “Houdini”. Un vortice di grande potenza, che si sublimava nella particolare costituzione della formazione, un vero e proprio muro di suono à la post rock che, nel suo apice, raggiungerà l’esorbitante cifra di tre chitarre e due bassi (rispetto al precedente “Non Esistere” la chitarra di Simone Cinotto torna qui ad avvicendarsi a quella di un Roberto “Tax” Farano proiettato verso la costituzione de Gli Angeli, mentre Marco Mathieu viene rimpiazzato da Marcello Marcelli e Massimiliano Bellarosa di Church Of Violence e Fratelli Sberlicchio si aggiunge come terza chitarra esterna). Ma, è doveroso dirlo, aldilà della ferocia sonora affilata nei concerti, vero motivo d’interesse erano i testi del leader, vicini alle idee dei primi centri occupati e con un particolare impianto narrativo, carico dell’ironia dei CCCP e del crudo realismo dei Blue Vomit. Discograficamente attivi dal 1994, anno dell’esordio “Vita In Un Pacifico Nuovo Mondo”, legato ancora ad una canzone più densa e “progressiva”, fino al 2002, con l’uscita dell’ultimo disco omonimo, marcatamente più melodico e trasognato, preda di numerosi cambi di formazione (in entrata ed in uscita), il collettivo è stato capace, come pochi – forse nessuno – di mettere al muro i vizi, prima ancora che del Paese politico, del Paese di cittadini, fatto di visioni distorte ed inganni sotto silenzio.  

Detto ciò, “Pura Lana Vergine”, oltre a segnare il loro indiscusso capolavoro in parametri di qualità, quantità e tiro, è certamente fra i cinque lavori italiani più belli degli anni ’90, e nella top ten di ogni tempo. Uscito nel 1998 in allegato al Manifesto – ulteriore segno, se ce ne fosse stato bisogno, del loro stato di coscienza civile –, con in copertina un’immagine rielaborata del Rischiatutto, il quiz che teneva in scacco i sogni di un’intera nazione agli albori degli anni di piombo (uno dei temi che, esplicitamente o meno, farà da linea guida lungo l’ossatura dell’album), mescola assieme strumentali – sei in tutto – e cantati – pardon, urlati –, anni ’60 e DC, Salinger e Pasolini, storia e realtà (che, ad onor del vero, si è consegnata da subito anch’essa alla magistra vitae). È “Uomo Ghignante” ad aprire le danze (“Agisci come sai, muoviti come sai / Difenditi dal rogo del mondo / Agisci come sai, muoviti come sai / Libero da ogni regola / Agisci come sai, muoviti come sai / Prendi tutto quello che vuoi / Agisci come sai, muoviti come sai”), con un riff letteralmente scartavetrante, un po’ come addizionare Nabat e Sonic Youth: “Senza Protezione” fa venire giù una grandinata di distorsione, una serie di colpi a rilascio graduale per un efferato noise-metal (“Guardo ad occhi chiusi dalla cima del mondo / Pelle algida, senza protezione / Libero dal male, libero dal bene / Senza ricordo, poche parole / Come lo specchio che moltiplica il riflesso / Carne, sangue, ossa, sesso / Senza il tuo perdono posso vivere lo stesso”); “In Un Istante”, in coda al disco, è quadrato hardcore con chitarre raschianti e power chord tonitruanti.  

Costellato da brani di terribile impatto, con slogan ad effetto di rara bellezza (“I palazzi nelle città sono colonne con niente sopra” e l’ancora più deciso “Il tempo contiene la nostra illusione”, entrambi da “Giro Di Vite”: un Franz Goria versione Emidio Clementi), il disco non lesina pesanti provocazioni a destra e a manca. Il mondo suggerito dai Fluxus sembra essere coperto da un’unica, grande, pirandelliana maschera, dove il sipario è lungi dall’essere calato e la vita si assottiglia alla dimensione di una recita. “Labbra rosse di giovani mamme / Tradimenti divertenti, il telefono di zucchero filato / Seni di gomma a dimensioni innaturali / Splendide mummie luccicanti e senza bende / Plastiche facciali di vergini bionde / Tutto da rifare, tutto da rifare / L’inganno non funziona, silicone a colazione / Tutto da rifare, tutto da rifare / Organi alla moda nella nuova collezione / Tutto da rifare, tutto da rifare / Ore interminabili passate ad aspettare” urla Franz in “Tutto Da Rifare”, accompagnato da una sezione strumentale prima a variazione minima e poi rapidamente attorcigliata su sé stessa. L’ipocrisia del sistema ecclesiastico si becca un ceffone – uno? – in “Lacrime Di Sangue”, veloce singolo con rapide chiusure ritmiche (“Paura dell’Inferno, paura dell’Inferno / Orgasmi repressi mordendo un cuscino / Spiegami il mistero del sangue che si scioglie / Santa Emorragia, piena di grazia!”). “Classe” è forse il vertice dell’impegno politico del gruppo, che recupera dagli archivi della RAI una vecchia registrazione comunista nella quale bambini torinesi, intervistati, testimoniano in prima persona l’assurdo divario nel trattamento scolastico riservato ai figli degli operai FIAT e a quelli degli impiegati d’ufficio, la piccola borghesia cittadina – da qui la divisione, appunto, nelle “classi” sociali del titolo –, con un minimale accompagnamento noise per power septet. Vi assicuro che ascoltare la tremula, cristallina voce di un piccolo protagonista pronunciare terribili verità (“Mio papà va a fadigare nelle macchine”) ed essere seguito da un vero e proprio smottamento chitarristico è straniante.   

Il meglio deve, nonostante tutto, ancora arrivare. La sezione centrale, per l’appunto, viene affidata a tre brani che, da soli, costituiscono un piccolo manuale di storia (non necessariamente della musica), da avere e conservare gelosamente. “Latte” è spoken word che accelera a pieni polmoni in un micidiale testacoda noise-core, con ogni incrocio di bassi, chitarre e batteria a mettere a fuoco ed immortalare polaroid (visto che avevo ragione?) di palazzi abusivi di cemento, il mare bianco di Roma, uomini e donne come carne da macero, i ragazzi di vita – riecco lo scomodo intellettualismo di Pasolini. La già citata “Giro Di Vite” è un tourbillon infernale di vigorosi schianti post-core, in una quadratura di cerchio lirico/sonora incredibile. Ma è con la chilometrica “Le Cose Che Non Cambiano Mai Poi Cambiano In Un Minimo Limite Di Tempo” (vero…) che il framework assume connotati agghiaccianti e più che mai sibillini. Con tre anni d’anticipo sulla tragica morte di Carlo Giuliani, Goria ha il coraggio di cantare versi (di Pastore) come “Cambiano le regole del gioco / La partita che comincia col rumore delle voci forti / Cose che diventano più chiare / Tra la folla, le bandiere / Controluce sono nuvole nel sole”, sputati fuori con una foga che ricorda moltissimo Tom Araya. Le chitarre macinano uno sfrigolante power chord in 7/4 e, in chiusura di ogni strofa – compreso il crescendo del recitato finale, che fa salire la pelle d’oca – esplodono in un boato assordante. Il boato dei manganelli sulla pelle. Della “cenere dei copertoni”. Delle bombe sotto le macchine. Il boato, insomma, della guerriglia. Con nessun vincitore.

Necessario, per sopravvivere.

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 8 voti.
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denis 10/10
REBBY 7/10
motek 7/10

C Commenti

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denis (ha votato 10 questo disco) alle 15:38 del 21 luglio 2009 ha scritto:

immensi

allora non sono l'unico ad adorare i fluxus!

concordo pienamente con te, marco. e vado anche oltre: superiori ai pur ottimi marlene e afterhours, sono stati il miglior gruppo rock anni 90 (bella musica italiana, in quegli anni)...quest'album, insieme al precedente "non esistere" (purtroppo ormai introvabile, ne possiedo solo una copia-logora-in musicassetta) sono i vertici assoluti del nostro rock!

postcore cazzuto, consapevolezza nei testi...e dal vivo spaccavano (li ho visti 3 volte).

ottima recensione...aggiungo una cosa per ciò che concerne le loro influenze: oltre ai melvins ed ai sonic youth, helmet e soprattutto fugazi mi sembrano punti di riferimento evidenti nel loro sound...comunque ancora complimenti

Alessandro Pascale (ha votato 9 questo disco) alle 21:11 del 2 agosto 2009 ha scritto:

spaccano davvero questi sì cazzo! E bravo il biasio che ci si è messo anima e corpo per darne un degno resoconto!

fabionico (ha votato 10 questo disco) alle 9:31 del 14 agosto 2009 ha scritto:

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