Have A Nice Life
Deathconsciousness
È un’aspra immobilità il tratto fondamentale dell’esperienza “Deathconsciousness”. Il desiderio di annientarsi e restare silenti, nella contemplazione della catastrofe. Infine ricostruire pazientemente le simmetrie del cuore e gli ingarbugliati filamenti che tengono assieme i cocci della nostra anima. Solo un reiterato arpeggio d’acustica a danzare nel buio di sintetizzatori funerei (“A Quick One Before The Eternal Worm Eat Connecticut”), una piattaforma sospesa sul nulla da cui fissare, in prima classe, la vita che ci viene tolta. Secondo dopo secondo. Una lacrima al rallentatore.
Le spire del gothic avvolte in un ceruleo manto shoegaze fattosi cinghia di trasmissione per un dolore tanto acuto da confondersi con la sua negazione: brusio del silenzio, vociare indistinto. Un’arte di studio. Gli spazi si aprono e si richiudono, confinati in un’estetica lo-fi che è paradosso, proprio in quanto fin troppo “pensata” e fin troppo palpabile. Ancora esplorazione delle possibilità del suono: filtri buttati, frattaglie di chitarra sparse entro una palude stereo di indicibile corposità (“I Don’t Love”), noise gates come piovesse a cesellare la nettezza di certi timbri e disperdere la voluminosità di altri ("Deep, Deep"); poi lo sfiorire delle voci trattate e le loro combinazioni armoniche, gocciolanti ricami rinascimentali e posatezza liturgica (“Earthmover”). Il tutto preordinato ad incorniciare tredici – superbe – canzoni dal vitreo pallore, meravigliosamente “eccessive” nel cospargersi di quel dolore esistenziale a cui soltanto il tocco dell’artista può conferire credibilità.
Lunghi i riverberi che arieggiano fra gli incastri quasi metallurgici di “Bloodhall”, con la chitarra a ”synthetizzare” lo spleen dei Lycia e le voci ad intonare la coscienza di aver ogni istante regalato, di esistere solo in quanto proiezione dei nostri desideri. Un “utilitarismo delle emozioni” riverberato nel refrain di “The Big Gloom” e nella magnetica desolazione del suo guitar drone ad intermittenza (Kevin Shields è ancora fra noi), mentre le voci si spartiscono lo spettro uditivo con melodie d’estatica commozione: “Please, please, please, release me…” ripetono ad intervalli di terza, prima che una batteria “albiniana” sporca e riprocessata non catapulti tutto in una dimensione ancor più paranoica.
Paranoia che in “Who Would Leave Their Son Out In The Sun” e “There Is No Food” è rosario snocciolato fra l’accartocciarsi di chitarre, vibratile al punto da confondersi col magico abbandono dei Red House Painters. ”Hunter”, da par suo, s’arriccia in serpentine di tonfi, bassi di pianoforte “espansi” fino a tramutarsi in campane a morto e gli alti a disegnare brevi volute di cielo, piccoli squarci di pianto. Quasi una versione algida e “goticheggiante” del trip-hop, intagliata nel medesimo calcedonio onice pur essendo completamente smemore delle sue radici black.
Molteplici (e decisivi) i rimandi alla new wave: il basso metallico come da lezione Killing Joke e il cieco girotondo di tastiere in “The Future”; la grancassa “sintetica” e il fiero rullante di “Telephony”, entrambi impostati sulle metronomie care ai Joy Division; una “Waiting For Black Metal Records To Come In The Mail” che vomita il sangue raggrumato di Sound e Christian Death ormai collisi in un’estetica produttiva volta a distillare universi di sfumature da ogni colpo di drum machine.
E poi c’è il canto assoluto di “Holy Fucking Shit 40.000”: una delle ballate più tristi della storia, eppure luminosa come può esserlo soltanto quel pianoforte lasciato a seminare brevi intarsi di celeste, prima che la malinconia artificiale dei New Order si faccia tutt’uno con le vertigini industrial dei Nine Inch Nails e imploda in un coda di “galleggiante” mostruosità.
“Earthmover” chiude le danze a passo di ciclope: prima salmo per voci e chitarra strapazzata, poi coro a cappella folk e cromatismi di voci bianche, infine tornado di gioia (?) post-Sisters Of Mercy che ri-plasma la vita per chi verrà dopo di noi. Undici minuti di quasi ultraterrena consonanza a far da camera di decompressione. Cappa di feedback tramutati in angelica poltiglia di nuvole. Qui però non c’è aria, nè sole: solo la sua immagine annerita. (Non voglio più soffrire così. Non voglio.)
Gli Have A Nice Life sono Dan Barret e Tim Macuga. Un duo di Middletown, Connecticut. “Deathconsciousness” è il loro doppio album d’esordio, frutto di quasi cinque anni di registrazioni. “Deathconsciousness” è anche il libro (l’autore è un loro professore universitario) che accompagna il cd, la cui simbologia religiosa ha fornito ispirazione per questo lungo tragitto sonoro. “Deathconsciousness” è, soprattutto, uno dei dischi più “potenti” da dieci anni a questa parte. Troppo presto per definirlo album dell’anno, ma poco ci manca. Un monumento senza tempo, raro disco “della” e “sulla” vita. La vita di chiunque. Anche di chi non lo gradirà.
(Il cd si può ordinare mandando una mail all’indirizzo dan@enemieslist.net al prezzo di 10 dollari più spese di spedizione.)
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