Exitmusic
Passage
Nota: questa è una recensione doppia. Per la prima volta, sperimentalmente, due recensori si incontrano/scontrato su una recensione del medesimo disco, per fornire due punti di vista e chiavi di ascolto differenti del medesimo disco. Il voto, 6, è una media tra i voti dati dai due recensori
Franz Bungaro
Voto: 7
Un duo, uomo donna, marito e moglie. Lui, Devon Church, musicista di alterna fortuna, lei, Aleska Palladino, attrice di discreto successo negli States, al cinema e in famosissime serie TV. Si incontrano per caso alletà di 18 anni, su un treno, in Canada, e non si separeranno più.
Nel caso di questo Passage, prima ancora di ascoltare l'album, mi è bastato ragionare per preconcetti banali e facili luoghi comuni per arrivere al dunque, o comunque non troppo lontano dallo stesso. Mettendo infatti insieme letichetta, la Secretly Canadian (Porcelain Raft, Yeasayer, JJ, Taken by trees), la formula, trendissima, del duo uomo donna (da ultimo, Tamaryn, Beach House, Chairlift, I Break Horses), il nome, Exitmusic (ispirato al quasi omonimo brano dei Radiohead), il nome di lui, Devon Church (un nome che sa tanto di congregazione cristiana misericordiosa, ed incredibilmente ne esiste veramente una a quel nome, a Chicago), e già si era materializzata in me un'idea, grossolana sì, ma realistica, di quello che poi ho realmente ritrovato in Passage.
E questo il primo vero lavoro in grande stile degli Exitmusic, dopo unautoproduzione del 2007 (The Decline of the West) e un EP del 2011 (From Silence). Se le premesse erano state chiare, gli sviluppi hanno sostanzialmente confermato le prime impressioni.
Struggente armonia. Dolcissima disperazione. Bellezza. Tristezza. Paranoia. Tutto questo nella voce flebile e dilaniata da un non ancora ben diagnosticato dolore esistenziale, esasperato ed esasperante, della bellissima Aleska Palladino. Melodie lente e cadenzate da beats semplici, glaciali. La chitarra elettrica che pochissime volte si stacca dalla pedaliera e dal riverbero, e che ricorda davvero tanto, quando sperimenta semplici arpeggi (The City, Stars) quella dei Radiohead di Hail to the thief.
La title track è di rara e raffinata magnificenza, con un intro in perfetto stile Sigur Ròs ed un poderoso crescendo che a metà traccia travolge come un fiume in piena, come non sempre succederà nel corso dellalbum. Vale il prezzo del biglietto, come usava dire Pizzul dei colpi di tacco di Roberto Baggio. Da segnalare ancora White Noise, laltro pezzo magistrale dellalbum. Siamo nel dream pop, quando lo stesso sfiora e lambisce lo shoegaze prima di formare un tuttuno con lo stesso, esasperandone il lato triste e malinconico, tipico di certe ulteriori evoluzioni post (mi è venuto in mente più volte il sadcore degli Arab Strap, quelli di Philophobia e Elephant Shoe). Il verbo dei Sigur Ròs torna in maniera fin troppo esplicita in The Wanting mentre The modern age a tratti è pure allegra, ma non troppo.
Non è certo lalbum che si ascolta se sì è alla ricerca della botta di vita, delladrenalina o dellempatia dellamico istrionico e caciarone. E invece lalbum buono e consigliato per gli amanti del dream pop, con le dovute premesse se lavete vissuto e apprezzato nei tempi doro, con maggiore disinvoltura, soprattutto da parte di chi lo consiglia, se siete fan o semplicemente amanti delle numerose retrospettive contemporanee. Anche perchè, tra questi ultimi, gli Exitmusic sono probabilmente l'offerta migliore in circolazione. E ho detto tutto.
Matteo Losi
Voto: 5
Aleksa Palladino (Brooklyn) incontra Devon Church (Winnipeg, Canada) durante un viaggio in treno lungo la terra della foglia d'acero, entrambi poco più che adolescenti. Si innamorano e si stabiliscono a New York, dove la Palladino ha già cominciato la sua carriera di attrice e dove, insanamente, i due decidono di coronare una love story così ben sceneggiata (vi ho tralasciato i particolari, ma potete tranquillamente reperirli in rete e farvi venire gli occhi lucidi manco steste guardando un polpettone con Meg Ryan) mettendo su una band. La Secretly Canadian se li accaparra e il gioco è fatto.
Ora, chi scrive tendenzialmente rifugge dalle coppiette canadesi che infestano le webzine di mezzo mondo con proposte che vanno dalla più deleteria rilettura del synth-pop alla più sonnolenta rilettura del dream-pop. Se stavolta è scattato l'abbindolamento è tutta colpa di quella voce. Quella maledetta, incredibile voce. Un catramoso/etereo/trillante/precario/squillante fiotto di luce scura che ipnotizza e sconcerta e repelle e ammalia. Una voce alla quale non è possibile trovare paragoni, se non riesumando quella Buffy Sainte-Marie che, consciamente o meno, la Palladino deve aver eletto a nume tutelare. Posto ciò, l'ipotesi di un connubio fra quel timbro vocale e basi di dream-pop sporco pareva quasi allettante. Pareva, appunto. E invece Passage (Secretly Canadian, 2012) tradisce le attese per colpa di una scrittura marmorea, una produzione troppo soffocante e penalizzante, una sensazione quasi sfiancante di monotonia che accompagna l'ascolto e che non ti scrolli di dosso nemmeno con (in quest'ordine): un romantico tête à tête; una puntata a caso di South Park; la lettura di Una Cosa Divertente Che Non Farò Mai Più (David Foster Wallace); l'acquisto compulsivo di cd e dvd su Amazon; una bella passeggiata; un bel porno.
Come immagine, gli Exitmusic ricordano dei Kills meno zozzi e più romantici. Come suono, a volte si situano dalle parti dei Sigur Ros più decadenti ed estetizzanti (The Wanting), altre nei pressi di una Beach House post-bellica (The Modern Age, White Noise). Le loro sono litanie traboccanti di dolore e rabbia implosa, affabilmente pop nel loro dischiudersi a mò di musical box sottratte a (e logorate da) un tempo perduto (la Title Track). Ed è sintomatico che, nell'esposizione, qualcosa si perda: il contatto con l'ascoltatore. Soltanto due i momenti davvero riusciti del disco. Il primo, The City, è una cavalcata dalle tinte noir e gotiche, melodicamente ineccepibile, abile nel cucire assieme strofe post-trip-hop e ritornello fragoroso/shoegaze. Il secondo, The Night, è l'epitome del loro stile; o meglio: di come sarebbe il loro stile se la qualità di scrittura fosse sempre a questi livelli e il suono sempre miracolosamente in bilico tra solennità dreamy e chitarrismo selvaggio (la versione live linkata è persino superiore a quella ufficiale). Dispiace (relativamente, sia chiaro), perchè gli ingredienti per un buon disco c'erano quasi tutti. Ci rivediamo al prossimo giro di boa, magari con meno hype e più idee.
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