John Maus
We Must Become The Pitiless Censors Of Ourselves
Un faro solitario che rischiara un’atmosfera dai toni cupi e tenebrosi, in un paesaggio gelido e sperduto: sembrerebbe la locandina di un anime steampunk apocalittico, e invece è la copertina del nuovo album di John Maus, musicista 31enne qui alla terza prova su lunga durata, dopo Songs del 2006 e Love Is Real del 2007. Un tipo piuttosto sicuro di sé (basta leggere il titolo del disco), ex studente di musica e poi di filosofia, uno che si applica con metodo e razionalità, seguendo regole ben precise, ma non perdendo mai di vista quella sana dose di intrattenimento che la musica dovrebbe offrire.
E alla fine ne vien fuori che fare un collegamento con lo steampunk non è poi sbagliato: se infatti esso rappresenta la trasposizione di atmosfere futuristiche in contesti anacronistici, ben si adatta a descrivere questo “We Must Become The Pitiless Censors Of Ourselves”, per il suo proporre suoni moderni e innovativi calati in un contesto da anni ’80. John Maus è un androide a spasso nel tempo, un eclettico artista che si diverte ad assumere sembianze surreali. Tutto il disco è dannatamente surreale: è una miscela indefinibile del recente Ariel Pink (quello di Before Today), svuotato della patina soft-rock e caricato di mille suggestioni synth dai continui rimandi a geni come John Foxx o Gary Numan, per dirne due. La voce è un baritono di stampo post-punk (un Ian Curtis ubriaco e delirante), ma i numerosi echi ed effetti a cui viene sottoposta le conferiscono i toni di un robot fantascientifico. Parte Streetlights, e pare di sentire il Frankie Knuckles di Your Love in preda a una sbornia acida; la vitale Quantum Leap, invece, si regge su un basso incalzante e su synth lanciati a mille (ritornello indimenticabile: "Heart to heart, mind to mind, we are the ones who seem to travel through time"); And The Rain scioglie immagini suggestive in fluttuanti frasi di organo; Hey Moon è il bacio delle stelle, un'ode alla luna piena di ineffabile romanticismo; viceversa, Keep Pushing On e Head For The Country si muovono su territori synth-pop fieri e danzerecci; Cop Killer dispensa ironia in un'atmosfera sorprendentemente epica; e poi c'è il gran finale, una Believer che è liberazione e deflagrazione psichedelica, un’allucinazione dai mille colori fluorescenti.
Dov’è che finisca l’esercizio di stile e cominci la personalità di Maus non sempre è evidente, ma è onestamente difficile trovare al giorno d’oggi un disco così particolare e caratterizzato. La sua brevità e intensità assicurano ascolti prolungati e spassosi. Basta solo accettare di salire almeno una volta su questa goduriosa macchina spazio-temporale che Maus ha allestito con geniale astuzia e brillantezza.
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