Nicolas Jaar
Space Is Only Noise
L’ascolto di Space Is Only Noise potrà molto probabilmente essere collegato a un’immagine del genere: un uomo che da un punto di vista ben collocato osserva una normale scena di quotidianità stradale, con la gente che conversa del più e del meno, i bambini che strillano, le macchine che sfrecciano; questo osservatore meditabondo annota, registra gli eventi, poi si ritira in un luogo isolato e crea una musica in cui inserire le scene appena analizzate.
L’esordio dell’appena 20enne Nicolas Jaar (produttore di origini cilene ma residente in USA), infatti, è un malinconico connubio di suggestivi field recordings (che vanno da conversazioni dotte in francese a rumori disparati), elettronica minimale/downtempo, una vena soul/jazz sentimentale, il tutto inserito su uno sfondo che deve tanto a certa micro/deep house. È musica dance riflessiva, su cui non si balla, più adatta a scaldare freddi pomeriggi invernali che non la pista di un club. A tratti sembra quasi di ascoltare la risposta americana a James Blake, anche se a differenza del genietto inglese Jaar non ha ancora le idee chiarissime.
Se infatti il lato più soft del disco riserva vari momenti affascinanti, quando il discorso si muove sul versante minimal techno si cade molto spesso nella noia e nel già sentito. E così la prima parte del disco intriga, e non poco, con la nenia al vocoder di Colomb, il noir-pop con suggestioni orientali di Too Many Kids Finding Rain In The Dust, a metà strada tra il Nick Cave di Red Right Hand e il Tom Waits più notturno, il jazz sintetico dal sapore esotico di Keep Me There, e infine il soul d’annata che flirta col dubstep in I Got A Woman (con un sample di “I Got” di Ray Charles). Dopo questo ottimo brano, si ha l’impressione che il disco diventi sempre meno centrato e sfilacciato, diviso tra riproposizioni delle ultime tendenze funk/techno in stile Matthew Dear (Problems With The Sun, Space Is Only Noise If You Can See) e tediosi esperimenti ambient (Almost Fell, Balance Her In Between The Eyes). Unici punti di continuità con la prima parte del disco sono rappresentati dai due minuti serrati tra beat dubstep e manipolazioni vocali di Specters Of The Future e la chiusura pianistica del duo Variations – Tre.
È piuttosto certo che ci troviamo di fronte a un giovane di belle speranze, con il futuro dalla sua parte, e che diversi episodi del suo esordio sono notevoli, davvero (come detto nell’introduzione, entrare nelle pieghe di questo disco ha il vago sapore di un estraniamento dalla realtà). Però Jaar non riesce ancora a reggere il formato album (puntare su una durata più breve avrebbe giovato senz’altro), e soprattutto, non dà l’idea di avere una precisa strada da percorrere. Aspettiamo con fiducia, intanto prendiamo il meglio.
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