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R Recensione

6/10

Manic Street Preachers

Rewind The Film

«How I hate middle age, in between acceptance and rage»

“Da loro ci si può aspettare di tutto” è un’espressione che suonerebbe come un complimento per la maggior parte delle band. Per i Manic Street Preachers no. Dai Manics si ci aspetta che suonino buon rock, politico e lacerato. Punto. O, in più: che ritrovino la verve della loro Sacra Bibbia. Che confermino che “Journal For Plague Lovers” (2009) non era venuto fuori per caso. Insomma: che non buttino lo spirito di Richey.

Al trio gallese piace alternare dischi pop e dischi più ruvidi. Lo avevano detto, prima del pessimo “Postcards From A Young Man” (2010). Lo si era già capito. Con “Rewind The Film” smentiscono l’andazzo. Il disco numero 11 dei Manics è, in realtà, pop e easy-listening come il precedente, anche se in modo diverso. Migliore.

Si tratta di un disco molto distante, a livello sonoro, da qualsiasi altro album dei Manics. Le chitarre elettriche sono quasi assenti. Dominano le acustiche e arrangiamenti ‘classici’, con archi e fiati che colorano tutto in bianco e nero: Wire, Moore e Bradfield, stanchi, avevano voglia di un disco che celebrasse questa loro stanchezza. Ossia l’età adulta.

Rewind The Film”, allora, è un ottimo titolo: dice il grado di nostalgia, cattiva e non voluta, che pervade il disco, tanto nei testi quanto nelle sonorità. Dice la volontà di mettersi in scena: non a caso due brani e mezzo sono affidati ad altre voci, quasi la band volesse prendere le distanze dal proprio stesso mito. Amato, ma soprattutto odiato: «The hating half of me has won the battle easily», dice in apertura "This Sullen Welsh Heart", su arpeggi puliti che preparano ai lavacri del disco.

Che ha il merito, almeno, di non essere, come era il suo predecessore, pomposo. Anche quando gli strumenti orchestrali calcano, non strafanno. Ne esce un lavoro infinitamente triste, fino quasi a diventare rasserenante. 

«There is too much heartbreak / in the nothing of the now», canta nel suo baritono Richard Hawley nella title-track: sei minuti che dicono tutto l’autunno sfinito di questi Manics (guardate qua sopra il video, se volete la tristezza assoluta). Niente rabbia. Al massimo rassegnazione (apice “Builder of Routines”, con flicorno), cantata in folk ballads d’altri tempi (“4 Lonely Roads”, alla voce Cate Le Bon), in dichiarazioni di fatica (“Running Out of Fantasy”), o in quelle che loro chiamano ‘suicide ballads’ (“3 Ways To See Despair”). Un theremin funereo guida l’unica traccia strumentale (“Manorbier”), e gli inni sono per i morti (“As Holy As The Soil”, canta Wire, per Richey) o per le cause perse, che poi è lo stesso (“Anthem For A Lost Cause”, un po’ una “A Design For Life” per le vite fallite).

Ecco: c’è una tale quantità di debolezza sovresposta che diventa impossibile approfittarne per affondare il colpo. “Rewind The Film” è il disco di una band di mezza età che si era costruita sulla rage ma che ora affronta, con coraggio, la acceptance. E quando respira qualche folata di gioia, lo fa in un modo glorioso (“Show Me The Wonder”, con tromba e arrangiamento da Elvis) che non può, se si dimentica per un attimo tutto ciò che questa band è stata, non toccare.

Rispetto.

«I can’t fight this war anymore».

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zagor alle 9:56 del 25 settembre 2013 ha scritto:

rispetto, concordo! uno dei più grandi gruppi degli anni 90! "Tipper Gore was a friend of mine!"