R Recensione

7/10

Bromheads Jacket

Dits From the Commuter Belt

A Sheffield non si suona, di questi tempi: si centrifuga. Tutto. Senza pietà. In quella che è la patria riconosciuta dell’industrial, qualcosa è cambiato, dopo il ciclone Arctic Monkeys. Non è solo una questione di successo: la sintesi operata dai quattro è stata per molti versi qualcosa di unico ed eccitante. Nessuno fino ad allora era riuscito a mettere nello stesso piatto il new rock dei Libertines, il talking urban di The Streets, la rilettura del ‘70s rock e del garage rock operata dai White Stripes e le escalation ritmiche dei Franz Ferdinand, mix improbabile ma immediatamente riuscito e riconoscibile di per sé, roba da Blur del nuovo millennio.

Naturale quindi che gli Arctic Monkeys siano già un modello da emulare, specie nella natia Sheffield. C’è chi lo fa malamente, come i deludenti Milburn e chi invece riesce ad aggiungere del suo all’equazione. E’ il caso dei Bromheads Jacket: i tre tendono ad esasperare ed esacerbare la carica sonica dei Monkeys, assalendo l’ascoltatore con scariche di fuzz e feedback e con What Ifs And Maybes sfoderano, impavidi, coordinate sonore e segni distintivi: approccio garage punkblues alla materia e talking a ruota libera sullo stile di Mike Skinner, che per molti versi sembra essere al 50% il nome ispiratore del gruppo.

Superate le formalità delle presentazioni si incomincia a girare a pieno ritmo: Going Round to Have a Word paga pegno agli Arctic Monkeys ma ne accentua oltremodo il tiro garage, Poppy Bird è metà Billy Bragg metà The Streets, Fight Music for the Fight è il fuzz garage rock di Jack e Meg White sparato in chiave mod, Lesley Parlafitt sono gli Small Faces che pogano con i Damned, One Nautical Mile si immerge in un wah wah spietato e macina garage blues di gran classe, He Likes Them Airbrished gli viene dietro, con la sua rilettura hard rock dei Cream.

In chiusura il gruppo torna parzialmente nei ranghi: con My Prime Time Kid riprende a Monkeyggiare, Trip To Golden Arches unisce The Streets a coretti pop punk ‘77, Hazy in Yateley alterna hardcore punk e hard blues e chiude il disco nel caos primordiale da cui tutto era partito.

L’onnivoro carrozzone inglese è ripartito. Alla grande. Provate a fermarlo se ci riuscite.

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