R Recensione

8/10

The Ponys

Turn The Lights Out

Turn The Lights Out, ovvero: come omaggiare un trentennale di rock, ponendo con vigore l’accento sulle desinenze garage, senza correre il pericolo di scadere nell’assurdo o nel ridicolo.

Sono in quattro (Jered Gummere, voce e chitarra elettrica: Melissa Elias, voce e basso; Ian Adams, chitarra elettrica e tastiera; Nathan Jerde, batteria), vengono da Chicago, hanno un nome un po’ bizzarro e, con esso, già due dischi alle spalle (“Laced With Romance” del 2004 e “Celebration Castle” del 2005). Nel 2006 una major, la Matador, si accorge di loro, e li mette sotto contratto, essendo a conoscenza del grande successo ottenuto nel circuito indie. Fine delle buone notizie? Affatto: con questo “Turn The Lights Out” i Ponys mettono a tacere tutte le indiscrezioni che li davano per venduti al mainstream, sparando un’ennesima serie di ottime cartucce di post punk, talvolta ingentilite da inserti pop, talvolta sporcate da macchie di garage cattivo e ben poco ruffiano. Con la sensazione di non avere ancora finito.

L’alta caratura qualitativa dell’album si percepisce sin dalle prime battute: il pezzo di apertura, “Double Vision”, è caratterizzato da un rock giocherellone, ingentilito da un ossessivo campanello che rintocca in sottofondo, mentre il vocalism di Gummere, a volte condizionato dall’attitudine punk, a volte addirittura ispirato al cantautorato lo-fi, si stende sotto un tappeto di riff sporchi, che sembrano essere scritti a quattro mani con i Raconteurs (tipicamente Seventies anche l’ottimo assolo, tremolante e coinvolgente). “Everyday Weapon”, aperta da un cambio di feedback, è una canzone veloce e scattante, senza inutili fronzoli o barocchismi stilistici, che centra in pieno il suo scopo con un garage rock dalle pesanti influenze zeppeliniane.

Meno immediata è la successiva “Small Talk”, dalle melodie più introspettive e malinconiche, tinteggiate di Arcade Fire: l’andatura non è comunque difficoltosa, in quanto si trova lo spazio di mettere una cascata di synth elettronici tra un arpeggio di chitarra e l’altro. La titletrack, posta in seguito, è una sorta di ballata, con tanto di coretto nel ritornello e celesta nello svolgimento, che cerca di ammansire i toni dettati in precedenza, riuscendovi senza particolari sbavature.

Si continua con la quinta “1209 Seminary”, brano che sembra essere stato scritto sotto la protezione dei Beach Boys, in compagnia di sole, mare, sabbia e un bicchiere di aranciata. O almeno, gli ingredienti base sembrano quelli: cantato morbido, accordi dolci e vagamente echeggianti, rullate abbastanza veloci e sostenute. Viene poi il turno di “Shine”, con la quale il quartetto di Chicago cerca di ristabilire un giusto equilibrio fra le parti vocali pop (d’effetto l’incrocio fra le due voci) e quelle strumentali a metà fra il punk, per la semplicità, e il rock tradizionale, per l’immediatezza. E, ancora una volta, un assolo suggestivo per portata e durata dona il tocco di classe in più. “Kingdom Of Hearts”, la composizione successiva, è forse l’unica vera pecca del lavoro: un’ennesima ballata, un po’scontata musicalmente, con l’unico pregio della breve durata (due minuti rosicati).

Ma si passa con nonchalance dal romanticismo alla durezza: “Poser Psychotic”, l’ottavo pezzo, è un tunnel, buio ed ipnotizzante, a metà fra psichedelia, garage rock, stoner e progressive rock, con una voce distante ed ammaliante ed una tastiera che sovente distorce con maestria i riff del basso di Mrs. Elias. Senza alcun dubbio, la perla del disco, sia stilisticamente sia musicalmente. Ancora inquietudine, anche se meno marcata, con “Exile On My Street”, che alterna parti strumentali, dall’imprinting quasi onirico, a vocalizzi sognanti, che si trasformano in urla punk nel ritornello, sotto una gragnuola di drumming. Ed il quartetto, nonostante il titolo apocalittico della canzone seguente (“Harakiri”), non perde un colpo che sia uno: gli echi floydiani che si percepiscono nelle strofe sono rimarcati e sovrastati da alcuni inserimenti di hard rock, musicalmente simili ai Deep Purple, miscelati sapientemente in un cocktail intrigante.

Spazio ancora alle influenze: la voce solista di “Maybe I’ll Try” assomiglia sorprendentemente a quella di Bobby Gillespie, frontman dei Primal Scream. Sotto l’aspetto musicale, un organetto traccia simboli fumosi, messaggi d’amore per i Sixties, con dedica continua della chitarra. E anche l’epilogo è di ottimo livello, con una “Pickpocket Song” capace di mutare continuamente, come in un dialogo musicale fra i componenti del complesso, con culisse, chitarre garage, pianoforti impazziti, cantati aggressivi e diretti, percussioni abusate, rumoracci sospetti, in un turbinio di note e sinfonie.

Traendo quindi le conclusioni, “Turn The Lights Out” è uno dei migliori album che siano usciti, fino ad ora, sul mercato discografico, nel 2007. Una bella rivincita per una band con ancora tanto da dire e da dimostrare. Alla faccia di chi se li prospettava stancamente mainstream.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 3 voti.
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gogol 6/10
REBBY 7/10

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