R Recensione

6/10

Port O'Brien

Threadbare

La traversata del bastimento festoso e sgangherato dei Port O’Brien entra in una zona d’ombra, oscurata dal passaggio di una nuvola (la morte del fratello minore della strumentista e cantante Cambria Goodwin) che offusca molti pezzi del loro terzo disco e incombe pesantemente sopra l’intero lavoro. Nati nell’esplosione post-Arcade Fire e Decemberists di band a zonzo per territori indie folk, preferibilmente su sfondo marinaresco e su tinte colorate, i Port O’Brien avevano già dato l’anno scorso (“All We Could Do Was Sing”) la dimostrazione di potersi smarcare dalle presenze ingombranti dei propri compagni di viaggio più celebrati, esplorando tendenze di folk rock corale declinate con stile e gusto melodico non comuni.

Threadbare” segna un ulteriore scostamento dalle origini vivacemente freak, costruito com’è su sonorità più smorzate (anche grazie alla produzione ‘ovattante’ di Jason Quever) e su ritmi più bassi rispetto al passato. La componente ‘bandistica’ viene anestetizzata e sciolta nel veleno di arrangiamenti torbidi, mentre si sviluppa sottopelle una sorta di mini-disco funerario tutto affidato alla voce della Goodwin (il “Funeral” degli Arcade Fire riletto da Marissa Nadler o da Amber Webber). Le due “High Without The Hope” piazzate agli estremi del disco e altri pezzi simil-requiem sparsi per l’album in una sorta di faticosa elaborazione del lutto (“Threadbare”, “Next Season”, “(((Darkness Visible)))”, l’auto-rifacimento di “Tree Bones”) mostrano inattese affinità verso esperienze intimistico-spirituali dell’indie wave recente (Bodies Of Water, Lightning Dust, i Beach House nell’elegia per tastiere di “(((Darkness Visible)))”), intensamente interpretate dall’eterea – ma come ‘sporcata’ dal dolore – Goodwin.

A questo polo introverso del disco se ne contrappone uno più solare, quasi che venisse riprodotto su disco il pendolarismo della Goodwin e del leader Van Pierszalowski tra la costa californiana (dove risiedono d’inverno) e i freddi orizzonti d’Alaska (dove trascorrono le estati, il secondo impegnato nella pesca del salmone - ! -). Così episodi di svago sunshine pop come “Leap Year” o movimenti di folk ballabile come “Love Me Through” danno colore al quadro d’insieme, costituendo, assieme ai momenti melodici più riusciti (“Oslo Campfire”, “My Will Is Good”, “Sour Milk / Salt Water”), un trait d’union con le prove del passato e un immediato tentativo di reazione alla sofferenza. Gli archi e le tastiere, in un connubio a tinte pastello con le chitarre spesso volutamente rugginose e con il banjo (“In The Meantime”), ricreano un’atmosfera di dolce convalescenza, mai sovresposta, se non in rari casi in cui si indulge in qualche autocompiacimento di troppo (“Calm Me Down”).

I nuovi Port O’Brien si prestano all’isolamento di inverni reclusi, mentre la nuvola passeggera sopra le loro teste ha buone probabilità di lasciare al prossimo sole una band più matura di prima. Che non è male.

 

Sito ufficiale: portobrien.com/

Myspace: www.myspace.com/portobrien

VIDEO

"My Will Is Good"

"In The Meantime" (live)

 

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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otherdaysothereyes (ha votato 6 questo disco) alle 19:28 del 24 novembre 2009 ha scritto:

Alcune canzoni sono molto carine, altre un po' meno convincenti, alla fine piuttosto inferiore a All we could do was sing dove secondo me non avevano sbagliato un colpo e che a parer mio era proprio un gioiellino. Anche stavolta d'accordo con il voto: la sufficienza c'è.