R Recensione

6/10

iForward, Russia!

Life Processes

Mancavano solo loro all’appello del secondo disco tra la folta truppa britannica attestatasi negli anni scorsi nel territorio della new new wave e affini. Il primo disco, “Give Me A Wall”, prendeva i Bloc Party e li scomponeva a pezzi, impastandoli con dosi di noise e punk. Operazione curiosa, quella della band di Leeds, che trovava spunti originali nel nome di una selvatichezza quasi isterica, grazie alla voce nevrotica di Tom Woodhead e a sfoghi di disco-punk a tratti notevoli.

Con il secondo episodio, i ¡Forward, Russia! hanno ambito a dare un seguito più articolato e complesso, riuscendo a rendere ancora più caotico il quadro delle loro sonorità. In questo “Life Processes” c’è più sperimentazione, più cura dei particolari, più ampiezza (quattro pezzi sopra i cinque minuti), meno melodia, in un insieme davvero ricco di spunti, ma tutto sommato inefficace.

Ciò che resta tipico della scrittura della band è l’abbinamento dissonante tra la voce da maniaco e il tessuto sonoro, spesso destrutturato e zig-zagante, grazie soprattutto a una chitarra epilettica che non crea mai veri e propri riff, ma piuttosto segmenti spigolosi chiamati a intersecarsi e a cozzare l’uno con l’altro (math-rock, davvero: i These New Puritans impalliscono a confronto), con esiti che definire schizofrenici è dire poco. Ciononostante, pur in questo grafico di linee e vertici, la voce di Woodhouse riesce sempre a trovare gli spazi dove inerpicarsi. Voce particolarissima, che può a tratti infastidire per l’alternanza di acuti da soprano e urli brutali, per la sua tensione costante.

Ne escono canzoni assai angolose, sghembe, portate a seguire tangenti nate all’improvviso, in una fuga labirintica di direzioni melodiche. C’è una predisposizione prog, sì, e c’è anche un’atmosfera di fondo spettrale e buia (come nella cavalcata epica di “Spring Is A Condition”), ché la somma di verticali sembra portare a una perdita di rilassamento quasi disperata.

Mentre alcuni pezzi si inseriscono pienamente in questo quadro (“Don’t Reinvent What You Don’t Understand”, la delirante “We Are Grey Matter”: bello l’incipit elettronico), altri aggiungono ulteriori tinte, tra l’hardcore (“Gravity & Heat”, collezione dissociata di diverse suite) e il post-rock, come nel crescendo mogwaiano di “Some Buildings”. Meno convincenti le due ballate: noiosa “Fosbury In Discontent”, che perde senza la batteria esagitata di Katie Nicholls, più interessante “Spanish Triangles”, alla quale nuoce una lunghezza eccessiva (al limite dei nove minuti).

Ascoltare più volte questo disco non è impresa facile. Trattasi di materiale spinoso, quasi sgradevole, non solo perché lasciare la voce di Woodhouse in loop dovrebbe essere inserita tra le cose da evitare per chi soffre di crisi epilettiche, ma anche per il costante senso di disorientamento in cui si è abbandonati. Tuttavia i capolavori della destrutturazione sono altrove. Qui, di sostanza, dopo un doveroso setaccio dei virtuosismi, ne rimane ben poca. Ai ¡Forward, Russia! un plauso per il coraggio, ma l’impressione è che la strada intrapresa sia troppo disagevole, prima ancora che per chi ascolta, per chi suona.

V Voti

Voto degli utenti: 6,7/10 in media su 3 voti.
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REBBY 6/10

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