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R Recensione

7/10

Kano

Another Life

I nomi di Stefano Pulga, Matteo Bonsanto e Luciano Ninzatti ai più forse non dicono niente. Di Stefano Pulga gli appassionati del pop forse ricordano alcuni album solisti che il cantante e tastierista incise tra anni Ottanta e Novanta, oltre che ad alcune collaborazioni; pochi, senza l’ausilio di una ricerca approfondita o di qualche lontano ricordo, pensano a questo trio come a un trio di importanti produttori musicali italiani (oltre che musicisti), produttori pioneristici e visionari nell’ambito di alcuni generi esplosi nel continente (e non solo) alla fine dei Settanta e di cui oggi recuperiamo i nomi solo leggendo il retro dei cartoni di qualche vecchio vinile comprato a un negozio d’usato per pochi euro, contenente compilation di remix o riarrangiamenti di pezzi che facevano ballare moltissimi nelle discoteche, quarant’anni fa. In una di queste compilation ormai d’antiquariato, si può leggere il nome di Pulga, associato non solo a Pink Project, progetto fondato assieme al già citato Luciano Ninzatti (produttore e chitarrista) con lo scopo di rivisitare alcuni grandi successi di band come Pink Floyd e Alan Parsons Project (da qui la simpatica crasi), ma anche a Kano, progetto sicuramente più interessante dal punto di vista internazionale.

Chi sono costoro? Costoro sono una band nata dall’incontro del trio Pulga-Bonsanto-Ninzatti nel 1979 con un enfant prodige caraibico della black music, Glen White. Glen milita in alcuni gruppi nel corso degli anni Settanta, facendo tour con personalità del calibro di Steve Ferrone (poi batteria per Eric Clapton). Glen visita spesso l’Italia e, che ci crediate o no, dopo uno dei suoi tour decide di fermarsi nella penisola e tentare le audizioni, nel 1970, per il musical teatrale Hair assieme a… Teo Teocoli, Renato Zero, la Berté – i collezionisti di vecchi spot televisivi avranno incontrato Glen persino nello spot del Beltè. Ebbene Pulga-Bonsanto-Ninzatti ci vedono lungo. Conoscono Glen e da quel momento in poi White diventa Kano e i quattro formano l’omonima band che ancora oggi deve essere considerata una delle prime, vere band che diedero via allo tsunami conosciuto come italo disco.

L’ultimo album dei Kano fu, assieme a qualche singolo precedente, quello di maggior successo. È Another Life (1983), la cui title track coincide anche con il singolo che ancora oggi qualche nostalgica discoteca di periferia non si vergogna a fare ballare a suoi attempati disco lovers. Definire cosa sia la disco music, per le sue numerosissime e trasversali influenze di genere, richiederebbe ben più tempo di qualche parola dedicate ai Kano. Tuttavia non rischiamo troppi riduzionismi affermando che gli ingredienti che hanno reso Kano una band di successo furono essenzialmente quelli che, dall’Italia in primis fino all’America (Patrick Cowley, per fare un nome), consacrarono il fascino di quel sotto-genere leggendario della disco conosciuto come italo disco: la fusione tra disco, funk e synth music.

Lo dimostra un brano come I need love, dove riconosciamo subito gli elementi classici del synth pop (gli staccati che sostengono la parte melodica) fusi così con il ritmo e la voce funk “di colore” (ulteriore merito) di White, che rendono impossibile, per esigenze di spontanea energia ed erotiche leggi di termodinamica, un ascolto fuori dalla pista da ballo. Così Mad in love e Dance in school, dove si riconoscono già tutti i groove che saranno un giorno dei Daft Punk e di altri epigoni che hanno preso, per richiamare il nome, diretta lezione da questa “scuola”. Another life, singolo oramai immortale per i cultori del genere, la più complessa anche dal punto di vista del testo, sente di certo l’influenza anche di un altro genere, conosciuto come space disco, breve filone eurodisco (soprattutto francese) che di certo i Kano ebbero modo di conoscere approfonditamente e che fonde la disco con temi e sonorità fantascientifici (lo scenario erotico-metafisico herbertiano contenuto nell’artwork dell’album lo dimostra ulteriormente). Così Ikeya seki, che non è un omaggio all’Oriente come la successiva China Star (tipico dell’estetica di molte band di quest’inizio anni 80), ma un brano strumentale assai suggestivo il cui nome deriva da una cometa scoperta da due astronomi giapponesi nel 1965, Seky e Ikeya appunto. Questo, per capirci meglio, è il sound che si ritrova anche nelle (per nulla banali) colonne sonore 8-bit dei videogame arcade, in quelle contenute nei floppy Commodore, ed è la musica che quotidianamente chiunque avrebbe voluto sudare.

Perché, che ci si creda o no, queste sono le storie che un banale vinile dimenticato nel retro di un negozio può portare con sé.

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Stefano_85 alle 16:55 del 25 febbraio 2021 ha scritto:

Queste sono le recensioni che mi piacciono. Cercherò il disco e l'ascolterò, grazie mille per la dritta.