Bloc Party
A Weekend In The City
Il suono di questo disco è il rumore stridente dei Bloc Party che si arrampicano sugli specchi. Con tonfo finale. Non sto a ripetere le solite considerazioni sulle difficoltà nel comporre un secondo album che segue un debutto acclamato: tra tutte le scelte che la band inglese potesse fare, basti dire che ha scelto la peggiore, ossia non scegliere. Ecco allora una partenza fulminante e spiazzante, una manciata di canzoni che non cambiano di una virgola lo stile di “Silent Alarm” e una seconda parte più coraggiosa, ma povera. Un po’ di tutto, nuovo e vecchio assieme, con poche cose che si salvano.
Sbalordisce l’apertura di “Song For Clay (Disappear Here)”, dove davvero i Bloc riescono a mantenere il felicissimo impatto sonoro dell’esordio con qualche succosa aggiunta, tra cui spicca il riff sfoggiato da Russell, dark e gotico, quasi alla System Of A Down. Un’introduzione scura e nebbiosa precede uno stacco epico, con la voce di Kele che poi si infiltra tra cori ombrosi e inquieti fraseggi di chitarra: la città in cui i Bloc trascorrono il weekend alza pinnacoli acuti, un po’ manieristici, ma che tracciano un orizzonte senz’altro originale.
Poi, con una successione troppo matematica ed elementare, segue la sezione “vecchia” del disco, dove la band va sul sicuro rifugiandosi nel suo sound nervoso e sghembo. Pazienza che “Hunting For Witches” sembri seguire pari pari la trama di “Helicopter”: il pezzo funziona, avanza con le stesse movenze epilettiche e squilibrate dei Bloc Party migliori. E così “The Prayer”, il primo singolo, con le strofe claustrofobiche e zoppe che si sfogano nel ritornello. Non è male neppure “Waiting for the 7:18”, che vuole riprendere le atmosfere più rarefatte delle varie “This Modern Love” o “So Here We Are”, riuscendo a dare un’aura cittadina di risveglio infreddolito, coi campanelli che cullano le strofe e le chitarre che strofinano il ritornello, arricchito dal coro di Gordon: il brano si scalda, fino a uno sfogo ancora più incisivo (e uno dei pochi assoli apprezzabili del disco).
È tutta la seconda parte che lascia francamente perplessi: le atmosfere si smorzano, le luci si fanno fioche, il clima notturno rimane freddo e straniante. Ma sembra di sentire una lunga canzone indistinta: le chitarre si distendono su uno zerbino e fanno spesso le veci di una tastiera; le melodie cantate da Kele sono ripetitive e finiscono per pestarsi i piedi da sole; la batteria di Matt, prima così variabile e ondivaga, qui è anestetizzata. I picchi dei Bloc Party si appiattiscono in suoni dilatati e sfumati, come l’alone di un lampione. Il disco, pur facendosi più omogeneo, si fa anche decisamente meno ispirato, e quindi più confuso: si veda “Uniform”, che distorce la classica asimmetria dei Bloc in un vero e proprio collage, con la colla che straborda molliccicosa. La durata dei pezzi si allunga, spesso dimenandosi in code che cercano di portare le melodie verso altre strade: l’effetto, però, è nella maggior parte dei casi fallimentare, e si risolve in prolungate agonie. Così “Kreuzberg”, che pure si salva per l’atmosfera lenta e brumosa, ma poi finisce in una lunga litania, con il canto spezzato di Kele che stanca. Non si capisce perché, nella generosa volontà di cambiare qualcosa, a rimetterci e ad andare in secondo piano debba essere proprio la chitarra di Russell, che era uno dei punti di forza del debutto, così spigolosa e ficcante. In “Where Is Home” entra in scena dopo due minuti, per risparire di nuovo: non se ne capisce il motivo, visto che è chiaro che la canzone regge solo in sua presenza. Se poi bisogna sorbirsi pure un riff alla U2 piuttosto che alla Bon Jovi anni ottanta, come in “I Still Remember”, il naso lo si storce sul serio.
Poi, certo, i Bloc riescono a mascherare un po’ la scarsa ispirazione con una produzione omogenea e con una verniciatura quasi da concept; e qualche brano, come “On”, si mantiene discreto. Ma il complesso del disco non regge. Generazionale, riflessivo, introverso, meditabondo, quasi autistico: se ne apprezza la generosità, ma alla fine prevale la noia, come nel finale troppo pacchiano. Peccato.
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