Bloc Party
Intimacy
Diciamolo subito: ll nuovo disco dei Bloc Party non piacerà a chi i quattro britannici non sono mai piaciuti e pensiamo non deluderà chi li ha imparati ad apprezzare, sebbene non possa far gridare al miracolo. Ma siamo vivi, gente. Vivi e vegeti, altroché. Anche A Weekend In The City, disco decisamente meno a fuoco di Silent Alarm (per il sottoscritto scintillante pietra angolare della nuova new wave inglese), mostrava comunque importanti segni vitali. I Bloc avevano apportato significative modifiche al loro sound, rendendolo più algido e stratificato, meno grezzo e scoppiettante, com’era nell’esordio, lasciando però il notevole lavoro di restauro incompiuto. Soprattutto l’appiattente produzione di Jacknife Lee aveva un po’ troppo svilito l’energia e l’intensità delle canzoni del secondo album. Qui Lee si divide il compito col capace Paul Epworth, produttore proprio del primo disco.
Nel caso dei Bloc, non si è mai trattato di uno squallido revival post-punk di gretti riciclatori. L’esordio del quartetto era infatti troppo fresco, personale e vario (per nulla monotono, come alcuni obiettano) per essere confuso con i dischi di tante giovani leve dell’indie rock. Ma basta qualche ritmica saltellante qua, una chitarra angolare là e qualche reminiscenza Eighties (Oh dio, orrore!) per diventare i nuovi zimbelli della critica, quando quello spirito e quelle reminiscenze in taluni casi non rappresentano solo una moda ma un prodotto e una testimonianza dello zeitgeist attuale, in un tempo così oscuro e incerto che spesso non può far altro che ispirare musiche urbane e al contempo intimissime, fatte di ritmi tesi e pulsanti, di nervosi e geometrici intrecci chitarristici, di voci sconsolate e insieme vivaci, di ingenuità e giovanilismo sì(i Bloc Party sono uno di quei gruppi che potremmo definire “trendy”) ma anche di qualcos’altro (molto altro) che va scovato più in profondità.
I primi approcci con Intimacy sono piuttosto difficili. Ci vorrà infatti più di qualche ascolto per digerire le ritmatissime e bislacche Ares (che arriva a toccare addirittura territori big beat) e Mercury (sfociante in un folle baccanale ritmico che poi viene invaso da grottesche incursioni fiatistiche) e seguire i loro allucinati versi.
Ma in quest’album saltano fuori anche i Bloc Party che non ormai non ti aspettavi più, oltretutto in piena forma agonistica: l’attacco spella-mani di Matt Tong (che finalmente torna a farsi sentire) in Halo ricorda i bei tempi andati (uh…era solo il 2005!) e introduce una prova più che convincente dei quattro, mentre One Month Off appare più regolare ma si muove più o meno nella stessa direzione.
Intimacy appare come un disco dalle molteplici anime. Forse leggermente più “sveglio” (che non vuol dire assolutamente più “solare”) che A Weekend In The City, ma in qualche modo anche più desolato. Comunque mai troppo sinistro o notturno. Mai troppo tagliente. Una sensazione di morte e perdita tuttavia si insinua spesso nelle atmosfere e nelle riflessioni contenute nel disco (specialmente nella sospesa Biko e nella “stropicciata” Trojan Horse, canzoni che mostrano un Kele Okereke mai così suadente e musicale). Una volontà di rinascita, ma anche i chiari segni del dolore addosso, i quali destabilizzano momentaneamente, inducendo ad una profonda riflessione, fino a spingere a rinchiudersi (anche se mai veramente del tutto) verso quell’intimacy invocata dal titolo dell’album. Il significato di quest’ultimo alla fine sembra risiedere in quell’equilibrio precario tra l’ingenua forza e dolcezza della giovinezza e una sensazione impellente di precarietà.
Molteplici anime si diceva. Difatti come si è deciso di tornare per qualche episodio indietro (anche se molto spesso inserendo qua e là nuovi e più invadenti effetti digitali sfiziosi oppure campionando e storpiando in maniera assurda la voce di Kele) così si è pensato di guardare anche in avanti, cedendo alle lusinghe di una indietronica tintinnante e candida (Signs, dall’impronta Notwist), oppure dai toni fortemente drammatici (Zepherus: una sorta di Hunter bjorkiana in stile Okereke con tanto di cori operistici).
Nella versione scaricabile probabilmente il pezzo forte di Intimacy è Better Than Heaven, con quell’irresistibile feeling quasi electro/hyperdub che domina ¾ del brano, prima della parte finale affidata ad una delle solite convulse cavalcate blocpartiane. Nella versione materiale del disco invece dovrebbe apparire anche il singolone Talons, tanto ballabile e edulcorato nelle strofe quanto disperato ed epico (rimanendo sempre incredibilmente effervescente) nel memorabile ritornello. Probabilmente si tratta del miglior singolo del quartetto dai tempi del mitico album bianco.
I Bloc si congedano con Ion Square (a quanto pare ispirata alla poesia di Edward Estlin Cummings I Carry Your Heart With Me), trasformandosi in degli Arcade Fire "digitalizzati".
Che dire infine? Un altro album di assestamento per i giovani leoni inglesi capitanati da un Okereke sempre più protagonista, un’opera meno compatta di A Weekend In The City, con qualche sbavatura in più ma anche, paradossalmente, contenente più highlights.
Che il prossimo passo sia quello decisivo?
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