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R Recensione

7/10

Massimo Volume

Aspettando i barbari

 

Che aspettiamo, raccolti nella piazza?

Oggi arrivano i barbari.

(Costantino Kavafis)

 

I barbari di Clementi come i noti tartari di Buzzati. L’attesa dei Massimo Volume come quella di Giovanni Drogo, nella Fortezza Bastiani che anticipa il deserto. Attesa di tutto, o di nulla. Del nemico o dell’amico. Di ciò che minaccia, di ciò che allieta. Attesa di ciò che è dietro l’angolo: un sentimento. O un’entità senza contorno, mascherata, sfumata. Sconosciuta. Di certo un cambiamento. Novità e crisi, non per forza sfavorevoli. La tempesta dopo la quiete, o viceversa. L’inquietudine che ne deriva, in ogni caso. Di concetti e di suoni. Un po’ come in Stanze, dove tutto è cominciato. Vent’anni dopo.

Di quel primo LP tornano le atmosfere scure, spigolose e tese, i toni secchi. Non c’è spazio per ballate, rilassamenti, perché il pericolo incombe, è necessario predisporsi. I Massimo Volume non si siedono sui facili allori di Cattive abitudini: così caldo nella musica, così affabile nelle liriche. Aspettando i barbari è agli antipodi del lavoro precedente, datato 2010. Lo è per potenza e asprezza, pur rimanendo un secondo passo, dopo l'esilio, che non ridimensiona affatto l'investitura del gruppo bolognese, ancora icona di una generazione. 

Clementi popola i suoi testi, ancora illuminanti ma meno prosastici, di personaggi catturati dal proprio pantheon, in un affollamento che vede accostare la poesia di Dolci al genio di Buckminster Fuller, alla purezza di Vic Chesnutt. E Chesnutt (“corona di spine / poggiata sul palco / tra la chitarra / e le spie”) è uno snodo fondamentale per la comprensione dei Massimo Volume. Che si cibano dei propri “limiti”, come l’americano, costretto a una sedia a rotelle, alla scarsa manualità degli arti: di queste incompletezze fece uno stile, così come Emidio Clementi fece di quel parlato soffuso il dogma suo e dei suoi compari: perché, semplicemente, “non sapeva cantare”.

È un disco più pensato e “matematico” dei precedenti. Fatto a tavolino, per stessa ammissione della truppa, oggi poco dedita all’improvvisazione e più votata a rarefare i guizzi improvvisi. Questo perché terra di approdo e rotta da seguire erano elementi già prestabiliti, fissati con largo anticipo: la terra, il solito post-rock, ora ruvido ma sempre impregnato di letteratura; la rotta, un mare annacquato più o meno bene da un tocco costante di elettronica, e sporco per le chitarre distorte, avare di morbidezze. L’empatia c’è, comunque. Ma tocca livelli meno intensi rispetto al passato.

Le cellule ritmiche ossessive della Burattini già si moltiplicano in Dio delle zecche, ouverture che riadatta una poesia di Danilo Dolci, tra synth e arie asciutte. San Benedetto del Tronto, luogo di origine di Clementi, torna ad essere immaginario letterario (La cena), tra le linee ipnotiche tracciate dalle chitarre di Pilia e Sommacal, sempre così complementari e turbanti. È una presa di distanza, quella del nuovo lavoro, dal suo immediato predecessore, come detto: ma la title track rimanda alle più fresche tendenze, traendone naturalmente gli aspetti più sabbiosi.

C’è spazio per un parlato quasi cantato (Dymaxion song), o per momenti più prolissi e narrativi che addobbano trame dure ed elettriche, poco dopo sognanti (La notte). Chitarre come sirene e voci fuori campo (Compound) e stralci colmi di nomi e riferimenti bellici (Il nemico avanza) preludono a una carrellata delle ispirazioni di Mimì (Da dove sono stato), ancora tra arpeggi fumosi. Prima, tuttavia, c’è una canzone in cui è visibilissima l’impronta classica dei Massimo Volume (Silvia Camagni), ricamata sia testualmente sia musicalmente su impianti consueti per Clementi e soci: una storia narrata con eleganza, emozionante, il brano spezzato in due con un clima distensivo nel finale (“Si lasciarono come / tutte le cose destinate a dividersi / come il mare e la terra”).

Non è un disco ottimista, pacifico. Non lo è perché costantemente inquieto (un Pessoa si sarebbe crogiolato), nervoso in ogni passaggio lirico e sonoro. Non lo è perché questo barbaro, che parla un’altra lingua, è ormai alle porte. O alla porta di quella stanza in penombra, dove una sorella si appoggia all’altra, ad occhi chiusi, stretta in un caloroso abbraccio. Il volto della ragazza che protegge, attratta da un rumore, è quello di chi sa che qualcosa, tra un istante, spezzerà ogni equilibrio. E sembra dire: “Non te l'ho mai detto / nel sonno le tue braccia / sembrano ali stanche / in fuga dai barbari". 

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Voto degli utenti: 6,8/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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Marco_Biasio alle 19:39 del 18 ottobre 2013 ha scritto:

L'impatto strumentale, soprattutto l'onnipresente e onnipotente mano di Pilia, mi sembra come al solito eccellente. Un po' fragili, questo passo, le liriche di Clementi. In ogni caso è ancora presto per votare. Bravo Jacopo...

FrancescoB (ha votato 7 questo disco) alle 20:04 del 18 ottobre 2013 ha scritto:

Dopo alcuni ascolti dico la mia: Emidio non delude mai. Forse non potrà mai più eruttare emozioni grezze e talento lirico ribollente come sopra "Lungo I Bordi", ma ciò non toglie che il Clementi sino ad oggi non mi ha mai deluso.

NathanAdler77 (ha votato 7,5 questo disco) alle 20:53 del 31 dicembre 2013 ha scritto:

"E io? Io aspetto qui e mi affido alla notte, che confonde le tracce, che nasconde i rifiuti, che ritorna costante..." Come tornare nella soporifera scena rock italica e preservarsi con un'ispirazione comunque vivida, urgente e fondamentalmente contemporanea: forse la miglior produzione MV di sempre (magnifico il lavoro della Burattini su quadrate ritmiche wave). "Dymaxion Song", "Compound" e "Vic Chesnutt" tra i migliori brani dell'anno, stranieri compresi.