R Recensione

8/10

Deadburger

C’è Ancora Vita Su Marte

C’è Ancora Vita Su Marte è il quarto passo nell’affascinante e tortuoso percorso musicale del Panino di Morti: le coordinate sono, per certi versi, le stesse già messe in luce nel precedente S.t.0.r.1.e.: un’avant rock ispido e sfaccettato, mai eccessivamente ermetico, che stende un ponte tra l’isolazionismo di certa avanguardia e le maglie larghe della forma canzone.

L’unico centro musicale possibile, in un disco che trae la sua forza proprio dalla sua instabilità, dalla sua abilità nello stimolare l’ascoltatore spiazzandolo senza sosta, resta, ancora una volta, un incestuosa unione tra sintetico e organico, oltre gli ormai stereotipati canoni cyberpunk dello scorso decennio: non più una semplice contrapposizione di chitarre “rock” e loop di batteria elettronica, ma una sintesi mutante e imprevedibile, un approccio nella composizione che potrebbe ricordare quello seguito dagli americani Menomena, coi suoi samples torturati da innesti di strumenti “suonati” e l’analogico ripercorso da infiniti processi di editing e post editing.

Un’affinità nel metodo, più che a livello musicale, e un paragone che probabilmente risulterebbe poco gradito ai nostri , i quali dichiarano di “prediligere la musica che si nutre della realtà piuttosto che di altra musica”. Sembra un clichè ma non lo è. Perché abbiamo a che fare, è bene chiarirlo fin da ora, con un disco antagonista, volutamente e sagacemente controcorrente, che rifiuta l’omologazione e rimpiazza l’idea di un disco-prodotto con quella di un album concettuale (ma non concept) che esige di essere ascoltato, che rifiuta di funzionare in background, di girare pigramente in sottofondo e che ha sete di stimoli esterni ai soliti parallelismi musicali.

C’è un mondo di rimandi letterari, politici, cinematografici tra i solchi di questo disco che non lasciano scampo né spiragli ad un ascolto superficiale. Perché, anche se, contrariamente a molta avanguardia pura, questo disco agisce anche sulla pancia, a livello subliminale, ogni canzone è un piccolo mondo a sé, che richiede di essere scoperta e sconosciuta e racchiude, come un’ostrica, gemme preziose e rimandi imprevisti.

Raccontare un disco così in modo analitico, semplicemente, non si può: meglio tentare una (incompleta) ricostruzione di ciò che ci troverete dentro: artisti del movimento Fluxus (Come Ho Fatto a Finire In Questo Deserto) e furiose ma rassegnate enunciazioni dell’ homo homini lupi (Personal Titanic), poesie messe in musica in un travolgente (pop?) rock chiuse da jam a distanza tra il sax di Jacopo Andreini (Ronin, Ovo) e quello di Sun Ra (!), omaggi a Badalamenti (Un Luogo Dove non Sono Mai Stato) e macumbe notturne racchiuse da parentesi world, la geniale divagazione antropogofa de La Signorina Richmond e una brillante esemplificazione concreta della teoria della devoluzione (I Veri Uomini Stanno A Chieti), chitarre suonate con l’ausilio di lecca lecca (Sedna), virus sintetizzati in officine sonore di silicio e campionamenti testuali di Houellebecq, uomini trasformati in sigle (Deposito 423) e Satie sciolto nella sostanza musicale psicotropa di Wormhole, sofisticati scenari notturni marziani (la titletrack) e finali di disco alternativi (Il Ciclo R.e.m. di una Città Stanca 1 e 2).

Ah, la musica ? Potreste sentir risuonare in lontananza e a tratti Marlene Kuntz/Afterhours/Massimo Volume/Liftiba/Quintorigo/La Crus, potrete scorgere indie rock innestato su una struttura avant rock o viceversa, schegge di free jazz, ascessi noise, spunti di recital, spruzzi di funk, divagazioni spaziali ed effimere lusinghe pop, in un disco che fondamentalmente ha l’immenso pregio di assomigliare, essenzialmente solo a sé stesso: una tale mole di spunti ed idee che quasi ci si domanda come faccia a rimanere, così meravigliosamente, insieme.

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DonJunio alle 14:57 del 16 aprile 2007 ha scritto:

bella...

sembra interessante: sinceramente i nomi degli anni 90 italiani che hai citato mi hanno un po' stufato,però qui pare di capire che si vada oltre quell'approccio..un nome da tenere d'occhio insomma