R Recensione

7/10

IlVocifero

Amorte

Ma chi l'ha detto che siamo persone plurali

io e te

rincorreremo qualcosa di unico e singolare

non sapevi - non credevi

che potevamo inventare la terra noi?

Vociferare è dire, parlare molto, spesso a voce alta, narrando cose talvolta incerte, vaghe, mentre “vociferano” anche gli uccelli, quando schiamazzano: c’è un po’ di tutto questo, nel nuovo e istrionico progetto che ha nome IlVocifero. Sentimenti urlati o bisbigliati, concetti confusi dal pathos, sputati verbosamente, col sangue o con le carezze, in una macedonia musicale che esula da ogni confine di genere. Che Amorte sia un prodotto assolutamente fuori dagli schemi, anzitutto per lo scenario italiano, è palpabile fin dai primi ottantadue secondi (Escogitare un dramma fantastico), sforzo tragico di speranza per un amore che forse potrebbe incominciare.

Amorte è, intenzionalmente, uno schiaffo alle categorizzazioni, alle consuetudini, alle gabbie dei cartellini, delle etichette, degli scaffali ordinati per nome e tipologia. Amorte è libero, svincolato e vero, ineffabile, pot-pourri di nature (pop, jazz, blues, rock, prog), di stramberie e tocchi improvvisi. E non poteva essere diversamente con Walter Somà (già compagno di Edda) a tirare i fili, sostenuto da Gionata Mirai (Il Teatro degli orrori), alla chitarra, e da Fabio Capalbo, alla batteria.

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte / ingenerò la sorte”, scrisse Leopardi, calcando il piede sul tema dell’album, e sul bisticcio del titolo. “E adesso mi tocca di affrontar l’amore / Non l’avrei augurato neanche ad un figlio da dio interiore”, esordisce subito Aldo Romano, dal canto potente e costantemente enfatico. Malgrado il disco appaia come qualcosa di appena fatto e confezionato, fresco, la cura ossessiva delle liriche (colme di allitterazioni, rime e assonanze) respinge la tesi dell’estemporaneità. E nonostante dettagli che lasciano pensare all’improvvisazione (voci fuori campo, urletti, puro free jazz, effetti inaspettati, cantato senza norme), nulla c’è di approssimato.

L’amore ha uno strano sapore di morte, l’amore è una malattia”: è il solito pensiero, viscerale, ribadito in uno dei brani migliori (Lucyd), senza respiro, con cambi di tempo, incastro di canto dolce o disperato (notevole l’intervento di Dorina Leka). Le diramazioni elettriche e i discorsi di Romano portano spesso la mente a Capovilla (Il Teatro degli Orrori), come in Blu e Amo, pezzo provvisto anche di fiati penetranti. La ricchezza dei suoni, e della soluzione in apparenza improvvisata, è palese poi ne Il gusto della morte, tra jazz ed archi. O in Scagliàti, con la voce simile al più loquace Pipitone dei Marta sui Tubi.

Aldo Romano strascica spesso le parole, le dilata e le trasforma, incollerito (Alito), secondo lo stile peculiare di Stefano Rampoldi (Edda), che interviene in uno dei momenti più emozionanti e classici del disco (tramite i lamenti in Persona plurale, toccante per temi e divagazioni di piano) e poi in Non nel tempo né nel mondo, delirando in un jazz suonato magistralmente. C’è spazio per percorsi meno singolari e acustici (Andrò via), per rapidi riff energici (Nastro solare), per i violini suadenti (Il mio passo è un sogno).

Amorte trova uniformità, paradossalmente, nelle sue sembianze poliedriche, nell’istinto imprevedibile, nelle trasfigurazioni, nei sermoni sempre trascendentali della voce, destinati a un orecchio attento: qui l’amore stringe ogni volta un pericoloso connubio con la morte. E la grande mano in copertina, bianca, dal mignolo piegato perché stanca, è forse alla ricerca di un sovrumano soccorso, un contatto, un aggancio. Per sfuggire al connubio letale. Vociferando.  

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