Mama Kin
The Magician's Daughter
Dietro Mama Kin capelli raccolti, tondi orecchini etnici, porpora sulla bocca, scialle pudico, contorno floreale si cela la talentuosa Danielle Caruana, australiana con origini maltesi, compagna di un altro artista (John Butler), ultima di sei figli di una famiglia assorbita dalla musica, e non solo: il nonno paterno era mago di professione, la madre di Danielle lo assisteva. Così è spiegato il titolo, The Magicians Daughter. Tra le pieghe del disco, poi, si comprende come la voce distribuisca goccia a goccia la magia, i segreti, le storie, e ciò che cè di magico è musica.
Mama Kin riprende le fila del precedente Beat and Holler (2010), servendosi del medesimo ronzio pop. Cè più soul, tuttavia, sia nelle note, sia nelle liriche, in una sorta di ampliamento e approfondimento, come lei stessa ha dichiarato. Si amplia difatti la tavolozza dei colori a disposizione, non più ridotta solo a tonalità pastello, frutto di melodie carine, fatte bene. Ora gli elementi nuovi sono saltuarie sfumature jazz e blues, linserimento di vibrafono e marimba a rendere il suono più levigato, a forgiare ulteriormente brani brillanti e ballate struggenti, carezzate dal pianoforte
A fare la differenza, però, è la voce esuberante, versatile, in totale controllo della vasta gamma di linee vocali (non lontana dalla migliore Etta James): si avvicendano accenti dolci e tremanti a modulazioni invece più potenti e meno sensuali. Questa voce sempre appassionata infonde emozione anche mediante le parole, che trattano di perdita, di sentimenti, di spiritualità. Di alchimia. Come quando una donna conforta il suo uomo, nella santità del letto (Bosom Of Our Bed), o come quando è un abbandono ad essere accennato (Cherokee Boy).
Insolite sono le percussioni invadenti (Was It Worth It, Give Me A Reason), perché a invadere emozionalmente il disco è sempre Mama Kin, con la sua presenza. I passaggi più ricchi rimangono gli inizi e le estremità dellalbum: Rescue è un valzer spavaldo, un pezzo dance-floor fregiato dal basso cordiale e dalla chitarra elettrica che abbellisce; One Too Many, rapida e ritmata, assume le forme di un folk gentile; Red Wood River, quasi tribale, denota nuovamente l'eclettismo del timbro vocale; più tardi è il tempo delle canzoni commoventi (The River As She Runs, Ill Be Ready), che confermano ancora una volta lottima produzione.
Disco coeso e suggestivo, quindi, suonato con brio e assai gradevole, elegante. La sciccheria c'è, ma non guasta mai. E ogni brano ristora come un buon balsamo. Che cura, lenisce e profuma.
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