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R Recensione

7/10

oAxAcA

Onde Di Sabbia

Salvatora” (2014), primo vero e proprio full length in quasi quindici anni di attività dopo una nutrita serie di formati minori e dischi brevi, fu un’autentica folgorazione: la scoperta che esisteva davvero un’altra Cuneo, diversa e contingente al Canalese noise, ma rispetto a quest’ultimo – se possibile – ancora più oscura ed inafferrabile. Per quanto, sfortunatamente, rimasto affare di e per pochi, è con l’ascolto di “Salvatora” che faccio personalmente coincidere il battesimo di fuoco degli oAxAcA, ensemble post-avant jazz che alla multiformità delle proprie manifestazioni fisiche (un’impresa tenere conto di tutti i musicisti che si sono susseguiti in line up, anche solo per un breve periodo) affianca una ricerca stilistica del tutto peculiare, come pochi – o forse nessuno – nel jazz italiano contemporaneo. “Onde Di Sabbia”, registrato a cavallo tra 2018 e 2019 per l’etichetta spagnola 2 Headed Deer (che raccoglie il testimone direttamente dalla nostrana Holidays), riconferma oggi il carattere sui generis del percorso artistico costruito nel tempo dal quintetto piemontese.

Diciassette dei quarantuno minuti complessivi del disco sono occupati dalla sola, ambiziosa “Trittico” che, come da titolo, si può facilmente immaginare suddivisa in tre tronconi principali. Nel primo, sull’invariabile andante martellante del basso di Tato Filipazzi, la chitarra di Alberto Dutto (Movie Star Junkies) intona fraseggi impro-no wave di autistica non consequenzialità, mentre in lontananza la tromba di Diego Viada contrappunta l’incessante rapsodare chitarristico con borborigmi fonosimbolici, tra il GINC e i Contortions di James Chance. La sezione ritmica viene trascinata del tutto giù a valle da un improvviso smottamento attorno ai 7’: giusto il tempo di ricompattarsi attorno ad affilatissime sezioni twang-noir che presentano più di un elemento di contatto con la sottovalutata Squadra Omega di “Nervoso”. Il finale vede infine ridursi il blob fusion-jazz all’anodino reiterarsi di un pattern minimal-cool in crescendo, assorbito dall’uso performante di pad e percussioni. Da qui subito si riparte con la title track, un soundscape astratto nel cui mezzo s’incastra una curiosa head ayleriana alterata da interferenze concrète: e ancora di stringhe quantistiche deprivate di corporeità si torna a parlare per le dissonanze chitarristiche di “640 Blues”, lasciate fluttuare in uno spazio di tumultuosa improvvisazione. A questi episodi di difficile decostruzione, tuttavia, si affiancano saggi di più ordinata e godibile scrittura creativa: ad esempio, lo sgangherato tex-mex in 6/4 di “Reich”, con rimpallo continuo fra chitarra e tromba, o il gran congedo di “Pannella”, dove l’ospitata di lusso a sax e clarinetto di Stefano Isaia (Movie Star Junkies, La Piramide Di Sangue, Gianni Giublena Rosacroce) regala ulteriore magnetismo alle trame serratissime di un funk-noir con sei corde in acido e un Viada formato Rob Mazurek.

Se anche qui e lì la tensione cala momentaneamente, quasi non ce ne si accorge: tipico segnale di un disco di livello. In fondo, verrebbe da dire, il grado di separazione tra le Langhe e il Tehuantepec è assai minore di quanto si potrebbe pensare...

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