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R Recensione

6,5/10

La Batteria

La Batteria II

Per settimane, osservando la pagina bianca che avevo di fronte, ho studiato un modo stilisticamente neutro di introdurre la questione. Nulla da fare. Compito difficile ed improbo, per non dire spiacevole, quello di spendere le giuste parole per descrivere questo disco, specie se affrontato con la vaga consapevolezza di ricoprire il ruolo dell’eterno guastafeste, quello che rifiuta i facili entusiasmi e che preferisce rimanere in disparte, osservare con calma, trarre le proprie conclusioni indipendentemente dall’umore generale: e tuttavia necessario, perché “La Batteria II” questo richiede e di questo necessita, indipendentemente da una mole imponente orgogliosamente sbandierata come segno distintivo dell’appartenenza ad altri tempi (diciotto brani per quasi settanta minuti di musica inedita, due anni e passa di lavorazione).

Partiamo, allora, da una constatazione: qualità e quantità delle collaborazioni. Che “La Batteria II” abbia ambizioni corali, per non dire orchestrali, non è un tarlo insinuatosi tra le pieghe del minutaggio: il quartetto romano a tratti suona come vero e proprio ensemble, dispiegando un armamentario strumentale che impressionante è dir poco (basti leggere nei credit su quanti diversi modelli di synth e moog mette le mani Stefano Vicarelli…) ed arricchendo le già sfarzose cromie delle proprie composizioni ricorrendo ad ospiti esterni. Tra i contributi più incisivi c’è quello del maestro Bruno Paolo Lombardi, il cui flauto traverso – voce solista di una splendida elegia, tra Morricone e Rota, guidata da vibrafono, glockenspiel e chitarra acustica – segmenta la melodia più struggente dell’intero disco, il commovente omaggio di “Monica Vitti”: dieci brani più tardi lo risente volteggiare fiabescamente, su un bordone badalamentiano di synth, nell’“Intervallo” che introduce l’ultima parte dell’opera. Evandro Dos Reis, che da anni condivide con il chitarrista Emanuele Bultrini l’esperienza dell’Orchestra di Piazza Vittorio, anima con voce e cavaquinho la generosa disco-funk di “Eldorado”: prima ancora lo si sente prestare la voce, assieme a Davide Savarese ed Ernesto Lopez Maturell, nel contrafforte polifonico dello stornello noir di “Fuga”. Maturell interviene con i bonghi sul rugginoso hard-funk à la “Convergere In Giambellino” di “Largo”, piazzando poi le proprie congas sullo scatenato controcampo balearico di “Moviola” e sulla summenzionata “Eldorado”. Ancora dejà senti morriconiani nel coro femminile – il With Us, diretto da Camilla Di Lorenzo – che incornicia lo spezzettato andamento narrativo di “Affresco”, mentre per i modulari sci-fi di “2170 Ultima Speranza” la scelta ricade sulla tromba roypaciana di Mario Caporilli, articolata in un caldo e lacerante assolo tex-mex. Presenza discreta ma costante è infine quella di Raul Cuervo Scebba, a vibrafono, glockenspiel e percussioni.

Pur non essendovi i presupposti necessari per parlare di un vero e proprio concept, è chiaro che “La Batteria II” presenta dimensioni e orizzonti da enciclopedia – uno zibaldone di vita vissuta, se si vuole, tradotto in suggestioni sonore. E se la portata dell’impresa fosse l’unico parametro dirimente ai fini del giudizio finale, il discorso si potrebbe virtualmente chiudere qui. Rimarrebbe tuttavia estromessa una questione fondamentale, quella contenutistica, che per gran parte del tempo viene elusa dalla sfolgorante prestazione tecnica della band – una prova che, va detto, per nitore sonoro e compattezza d’interplay riesce ad oscurare qualsiasi produzione di genere degli ultimi cinque anni, ponendosi al livello del maestoso “Decade” dei Calibro 35. Non si parla a caso di “questione contenutistica”: le disomogeneità interne alla scaletta, già intuibili ad un primo approccio, divengono sempre più evidenti col trascorrere degli ascolti. La traduzione in termini un po’ più chiari (e taglienti) comprende due valutazioni, una di merito e l’altra di metodo. Quella di merito è che a pezzi molto buoni, concentrati perlopiù nella prima metà, se ne alternano altri molto meno buoni, che infoltiscono la seconda: quella di metodo è che “La Batteria II”, sezionato nel dettaglio, non presenta poi tutta quell’eterogeneità stilistica di cui si fa vanto.

Una precisazione, per il primo livello d’analisi, è d’obbligo: il brutale “meno buono” sottintende a sua volta una duplice accezione, una propria (pezzo scadente) e una impropria (pezzo discreto, ma piuttosto volatile, superfluo). Di brutto non c’è quasi nulla, se non – gusto personale – l’hard boiled stereotipato di “Megalopoli” (sul versante “chitarre pesanti”, se bisogna scegliere, molto meglio seguire la scia dell’acido cicalino che beccheggia, a mo’ di reclame, nell’hard-prog malinconico di “Dogma”). Ad intralciare la fluidità dell’ascolto si pongono piuttosto tutta una serie di episodi di raccordo che, ad una media gradevolezza, oppongono un apporto discutibile: nel mirino ci sono soprattutto le deviazioni più apertamente funk, da subito predicibili nel tono e nell’impostazione (“Largo”, chitarristicamente costruita su un classicissimo salto di tono, è catchy ma strasentita), dal profilo incolore (“Furfante Amedeo”) o fin troppo piacione (il cambio di passo Nu Guinea in “Eldorado” è troppo evidente). La band funziona decisamente meglio altrove: quando, ad esempio, si libera dagli schemi per spingere sul pedale delle dissonanze performative (il kraut distonico à la Gruppo Improvvisazione Nuova Consonanza di “Stiletto” si candida a miglior brano del disco), quando tumula germogli easy listening in inaspettati sarcofagi robot-fusion (“Diva”), quando contamina a più livelli complesse architetture armoniche (“Fuga”) o sfrutta le convenzioni di genere per forgiare autografi realmente personali (“Monica Vitti”, il sottovalutato dramma tinte seppia di “Romanzo”, l’incalzante ed angolare cold-wave di “Spirale” che oscilla tra Berlino e Napoli).

Il secondo livello d’analisi è più delicato e, per certi versi, più problematico, perché mette in discussione il dogma basilare dell’operazione: quello di variazione. Che il disco sia ricco di sfumature e persino esuberante nel suo trasformismo epidermico è un dato di fatto: ma in che misura le realizzazioni superficiali sono fedeli alle strutture profonde, agli schemi compositivi? Non quanto si crederebbe. La misura è data dal buon pastiche space-prog del “Prologo” che inaugura le danze: tema principale condotto da uno strumento, stacco, riproposizione in chiave maggiore per mano di un altro strumento, chiusura climatica. Cambiano gli addendi, spesso non la somma conclusiva: tant’è vero che, tra le maggiori sorprese dell’ascolto, intervengono il breakdown di Farfisa nella divertente “Moviola”, le schegge concrète dell’acuminata “Stiletto”, la decostruzione centrale per wah di un’altrimenti speculare “Affresco” o la tromba di “2170 Ultima Speranza” (provare per credere). Non che ci si aspettasse altrimenti, ci si intenda: il problema, a questo punto, diventa però lo spostamento di prospettiva da “eterogeneità” a “sovrabbondanza”, da “varietà” ad “accumulo”.

Ritengo sia precisamente questo spostamento, non sempre felice, a tracciare ancora un solco tra fuoriclasse (i Calibro 35) e seconde linee di qualità (assieme a La Batteria dovremmo citare almeno anche La Band del Brasiliano): il coraggio di dire magari meno, ma meglio. Per cui, che disco è “La Batteria II”? È un buono, a tratti ottimo disco. Quanto al capolavoro di cui si è letto altrove, dobbiamo ancora aspettare del tempo.

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