Bill Evans
You Must Believe in Spring
You must believe in Spring mi ha folgorato con la copertina, vagamente imparentata con quella di Closer dei Joy Division.
Un'immagine funebre al centro (anche se qui si tratta di un paesaggio autunnale, per Curtis e soci si trattava di una figura rubata al cimitero monumentale di Genova: ma la tonalità grigia e pensosa prevale in entrambi i casi), la stessa impaginazione, un'eguale capacità di evocare le tenebre, o meglio immagini di morte.
Non è questo il solo legame fra il capolavoro di Evans e la fine: almeno non per il sottoscritto, che ha riscoperto il disco in un momento terribile della propria vita, il classico momento in cui una tragedia personale imprevista rende banale ogni altra cosa.
Evans mi ha conquistato quando le tenebre erano fitte, grazie alla sua straordinaria empatia, grazie alla sua capacità di farti sentire accanto al pianoforte, nel salotto avvolto dalla penombra, mentre fuori la pioggia spegne un pomeriggo autunnale; mentre si viene soverchiati da paure, angosce e dolori molto simili.
Le parabole tormentate, l'atmosfera fatalista, l'impareggiabile eleganza del tocco, trame sonore brillanti e calligrafiche: tutto ciò ha contribuito a creare un'empatia totale fra artista e ascoltatore, un miracolo che capita sempre troppo di rado. Empatia non casuale, perché il tema cardine di You must believe in Spring, a dispetto di un titolo che trasuda speranza, è la morte (e la copertina grigia è un serio indizio: il travaglio interiore di Bill è diventato insostenibile).
La morte intesa come ineluttaibile perdita delle persone più vicine, come immane tragedia personale, come approdo di solitudine: la morte interiore che Evans ha dovuto fronteggiare più volte nella propria vita, prima con la moglie suicida e poi con la prematura scomparsa del fratello, cui era legatissimo (tanto da sopravvivergli per pochi mesi).
Tu devi credere nella Primavera, allora, sembra più che altro una incitazione autoreferenziale, quasi che Evans stesse parlando con lo specchio. Quasi che volesse convincersi a non gettare la spugna, anche quando tutto induce a farlo, senza preoccuparsi troppo delle reazioni del pubblico.
Anche qui, come quasi sempre nel corso della carriera, il geniale pianista dal tratto gentile e nobile rivolge la propria attenzione esclusivamente verso la propria persona: il suo pianoforte riesce nell'impresa di dare un suono alla timidezza, è la traduzione in sette note del concetto stesso di introversione.
E del resto, titoli come Conversations with myself, How Deep is the Ocean, Explorations, o live poderosi come quello del Bill Evans Trio al Village Vanguard, sono emblematici di uno stile tutto ripiegato verso la ricerca interiore e l'espressione più candida e pura dei propri sentimenti. Senza mediazione, senza alcun desiderio di assecondare gli ascoltatori.
E quest'ultima opera, pubblicata poco dopo la morte (a soli 51 anni), e incisa pochi anni prima, sintetizza in pochi brani il senso di solitudine che permea tutta la carriera dell'artista, ma è anche e soprattutto la gemma assoluta della sua discografia, oltre che della collaborazione con Eddie Gomez.
B Minor Waltz (For Ellaine) potrebbe essere uscita dalla penna di uno qualsiasi fra i grandi romantici dell'800, se non fosse per lo swing (per quanto appena accennato) che ne vivacizza il tratto. Il Walzer consente ad Evans di mettere in mostra un repertorio tecnico e una formazione di stampo classico, oltre che il suo tocco delicatissimo e quasi perlato, il suo incedere mesto e strenuamente malinconico, la sua eccellente inventiva melodica. La dedica alla moglie da poco scomparsa getta ombre sulla linearità del tema, apre prospettive oscure e (mi si conceda la contraddizione) dolcemente agghiaccianti (in questo equilibrio, in realtà, sta tutta la magia del disco).
Si tratta di un pezzo straordinario, ricco di sottigliezze, ricami e pennellate d'autore.
Leggermente più movimentata è la title-track, ampio spettro di emozioni che si muove con la consueta eleganza regale fra la tristezza più inguaribile e sprazzi di vitalità, con tanto di un brillante solo al contrabbasso.
La capacità di Evans di concepire melodie intense e struggenti risulta fuori concorso: e basta un semplice ascolto a Gary's theme, o alla pensosa We willl meet again (For Harry)", quadri di bellezza spiazzante (specie il secondo, commovente acquarello dedicato al fratello), disegnati con maestria impareggiabile, per rendersene conto. Bastano le note centellinate che illuminano il tema centrale di "Peacocks", forse l'apice emozionale del disco tutto, per stringerci il petto.
Suicide is Painless (che rimaneggia un tema popolarissimo, una sigla televisiva addirittura) è invece il testamento definitivo del pianista, ove si avvicendano rassegnazione, scoramento e la volontà di abbandonarsi finalmente alla pace per dimenticare i troppi dolori inflitti dalla vita, enfatizzati peraltro da una sensibilità estrema.
Il brano è una gemma assoluta non solo dal punto di vista poetico, ma anche strettamente formale e musicale, perchè lungo i suoi solchi Bill dimostra una volta di più una grande fantasia melodica, un uso sapiente dei silenzi volto a valorizzare i singoli incisi, la capacità di trarre spunto da classici e standard jazz per liberarli progressivamente da certi steccati armonici e svilupparne le possibilità melodiche ed espressive.
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