Tim Berne
Tim Berne's Fractured Fairy Tales
L'altosassofonista bianco newyorkese Tim Berne a modesto avviso di chi scrive merita forse la palma di primus inter pares, nel marasma del jazz moderno e contemporaneo (diciamo, dagli anni '80 in poi).
Forse anche più di Keith Jarrett, Bill Frisell, John Zorn, Kenny Wheeler, Dave Douglas o Steve Coleman (lasciando per un attimo da parte i grandi d'Europa da Evan Parker a Garbarek, senza dimenticare polacchi e tedeschi e gli autori emersi con prepotenza nell'ultima decade: da Matana Roberts ad Ambrose Akinmusire, passando per Kamasi Washington e vari altri), il pupillo del maestro avantgarde Julius Hemphill ha saputo costruirsi uno stile del tutto personale. Tanto complesso, ricercato e proiettato nel futuro, quanto abile nel piegare idee e vere e proprie scuole del passato più recente alle proprie esigenze.
Andiamo al sodo: Tim Berne's Fractuted Fairy Tales è uno fra i lavori jazz imprescindibili delle ultime decadi, perché come spesso accade si colloca al crocevia fra il radicalismo più marcato di inizio decennio (su tutti, uno splendido Mutant Variations, che vede la luce nel 1984) e la maggiore godibilità delle opere successive.
Ma, più di ogni altra cosa, il disco è un capolavoro perché compatta in una forma coerente e di pregevolissimo lignaggio una miriade di forme di espressione.
Berne è estraneo al post-modernismo più intransigente: penso appunto alla scuola post-free europea, forte di un certo raziocinio, ma anche prostrata verso una violenza fonica senza precedenti, specie in Inghilterra, in Scandinavia e in Germania (si provi per curiosità Maching Gun, For Adolphe Sax, The Snake Decides, Afric Pepperbird).
Ma segue con interesse le traiettorie disegnate dagli autori più originali della Grande Mela: impossibile non notare alune affinità con il caleidoscopio inclassificabile di John Zorn, così come con la prospettiva total-black di Steve Coleman. Tim però forse va persino oltre: le sue Fairy Tales sono miracolose perché regalano ordine al caos, perchè mettono il cuore dentro il marasma. Perché ti inchiodano all'ascolto, al di là di tutte le possibili teorizzazioni e analisi di questo mondo.
L'attitudine del musicista è chiaramente progressiva: l'ensemble è una sorta di filiazione bianca dell'Art Ensemble of Chicago, in quanto abbina sax contralto, tromba tascabile (Herb Robertson), violino (anche elettrico), violoncello, basso, percussioni, shacktronics, inserti vocali (The Telex Blues è di fatto una canzone).
I brani inoltre hanno durata notevole: in tre casi si supera i dieci minuti, il capolavoro Evolution of a Pearl sfiora i venti.
Rispetto alla scuola AACM, fermi restando i tratti comuni, Tim però è più coeso, forse meno dispersivo, meno oltraggioso: il newyorkese è maestro nell'uso dei ritmi asimmetrici, e li sfrutta in modo particolarmente libero, arioso, riuscendo tuttavia a costruire rispetto ai chicagoani - un discorso più lineare.
Sarà anche perché è un superbo melodista, e quindi affida a sax e tromba oltre che, più raramente, agli archi - l'interpretazione di arcate melodiche certo arzigogolate e di complessa ideazione, ma forti di una notevole espressività. Sarà che Tim - pur essendo visionario - è anche un narratore, e quindi potenzia le capacità comunicative degli strumentisti e le combina in modo da regalare coerenza al discorso.
Queste peculiarità, unita alla capacità di giustapporre nei brani episodi contrastanti (ora di chiara impronta post-free, ora decisamente di scuola bop o post-bop, ora ancora affini alle stupefacenti tavolozze di rumore del jazz moderno europeo, ora ancora di ispirazione latino-americana, specie nell'uso delle percussioni e dei ritmi) lo avvicinano per visione d'insieme a Charles Mingus, oltre che al suo maestro Julius Hempill.
Non è semplicissimo seguire e intuire l'evoluzione dei pezzi, perché Berne stravolge le fondamenta del discorso ogni tot minuti, costringendoti a rivedere impressioni e giudizio complessivo sul brano: non mancano infatti solo imparentati con lo strutturalismo plastico e impossibile di Anthony Braxton, intervallati da fasi in cui la melodia riscopre la propria centralità. Il miracolo sta quindi - ancora una volta - nell'assoluta coerenza del discorso: Berne cesella ogni battuta e ogni fase modulante in modo certosino, allo scopo di evitare la sensazione di totale frammentarietà che spesso evocano opere così articolate e complesse.
Merita infine un cenno la vastità di colori del suo sax contralto: Berne è un maestro non solo e non tanto della tecnica esecutiva, ma anche e soprattutto della modulazione e della regolazione della potenza del suono, oltre che dell'uso della timbrica. La leggerezza e l'agilità con cui tutti si muovono sopra i suoi spartiti è stupefacente, e ancora una volta figlia dei suoi maestri, su tutti Charles Mingus (colui che poteva ideare frasi lunghissime e sulla carta incasinate oltre ogni limite, suonando sempre tuttavia accessibile, anzi direi comprensibile).
Ecco, Robert Fanney dice che Un genio è qualcuno che prende una cosa complessa e la fa apparire semplice. Un accademico fa il contrario. Anche Mingus, pur esprimendosi in termini diversi, era dello stesso avviso. E e me viene da pensare che lo sia anche Tim Berne.
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