Kenny Wheeler
What Now?
Ci ha lasciato giusto pochi mesi orsono un gigante della musica contemporanea come il trombettista canadese Kenny Wheeler, ed è davvero un peccato che la sua straordinaria carriera sia passata (e passi) quasi sempre sotto silenzio in mezzo al grande pubblico.
Forse è il destino ineluttabile di tutti i modesti e i timidi: Wheeler è stato uno strumentista versatile e virtuoso, ma soprattutto uno sperimentatore instancabile, uno che ha vissuto da protagonista tutte le fasi calde della storia del jazz per poi sviluppare un linguaggio sempre più personale e articolato.
La tromba è uno strumento difficile: la sua gamma sonora è decisamente più ristretta rispetto a quella del sassofono, e un pieno controllo espressivo delle sue potenzialità non credo sia agevole.
Tantomeno è facile dire qualcosa di originale usando lo stesso strumento che prima di te hanno imboccato (nomi a caso) Armstrong, Miles Davis, Dizzie Gillespie, Booker Little, Clifford Brown, Fats Navarro, Lester Bowie, i grandi solisti delle orchestre e qualche altra decina che ora come ora dimentico.
Wheeler durante la sua lunghissima carriera (era un 1930, è morto nel settembre del 2014) ha lavorato con i maggiori bobbisti, acquisendo scioltezza e lucidità quando si tratta di esplorare le armonie estrapolate dai vari chorus, oltre che una padronanza strumentale unica. L'artista ha poi affrontato di petto l'epoca del free, trovandosi a dividere idee con gente del calbro di Roscoe Mitchell, Lester Bowie o Anthony Braxton.
Forse a causa della sua eccessiva timidezza, è emerso relativamente tardi come grande solista: i primi lavori come leader vedono la luce quando Kenny ha quasi 40 anni.
Da lì in poi, però, è tutto un meraviglioso crescendo, che lo porta a scolpire autostrade e ponti sopraelevati di inenarrabile bellezza con "Gnu High", e con qualche altra manciata di dischi da cui è difficile prescindere, se si ama anche il jazz moderno e attuale.
La sua ispirazione raramente ha conosciuto momenti di stanca, tanto che, a 72 anni, Kenny si è messo a lavorare con due menti elettroniche raffinate come quelle che si nascondono dietro il progetto Spring Heel Jack, e il suo contributo alla riuscita di un capolavoro come "Disappeared" (per chi scrive, uno fra i dischi dell'ultimo decennio) è decisamente importante.
Nel 2005 Kenny torna al quartetto jazz, ma, come già gli era accaduto in passato, butta in un burrone le convenzioni: costruisce un ensemble che prescinde dall'imput ritmico della batteria, forse per liberare "spazio" alle invenzioni del suo corno e dell'elegante sassofono tenore di Chris Potter, maestro del souno ECM, qui in eccellenti condizioni di forma. Il quartetto senza percussioni non è una novità assoluta (lo stesso Wheeler si è già cimentato con l'idea), ma rimane una proposta particolare e inusuale, perché la musica sembra sempre arrancare, eppure, in qualche modo, finisce per volare.
Al loro fianco, il contrabbasso burroso e atmosferico di un certo Dave Holland (altro reduce dagli anni d'oro della musica libera), e quindi il pianista inglese John Taylor, sontuoso nell'ideazione di armonie minimali e galleggianti, alla maniera dell'Evans maturo, o del Keith Jarrett meno invasato in termini di spunti da virtuoso (fantastico, in tal senso, un suo variegato e percussivo solo in "Iowa City").
Il risultato di questa fusion di anime è "What Now?", ovvero una fra le esperienze jazz più significative dell'ultimo decennio.
Definire lo stile di Wheeler è quasi impossibile: il canadese è votato a un lirismo concentrato e cristallino, a tratti quasi esile, dolcissimo. Più che altro, in alcuni fraseggi, la sua tromba sembra trovare una facilità di fraseggio e una pulizia tali che (mi si perdoni l'assurdità da profano) a me pare di ascoltare uno strumento che assomiglia quasi più al sax alto.
Wheeler sembra condensare nel suo stile complesso ma decisamente "leggibile" molti nomi: l'esuberanza venata di disperazione di Booker Little, l'immaginifica densità visiva di Miles Davis, certe asprezze riconducibili al free maturo. In termini di pensiero musicale, però l'influenza più importante è forse quella di Wayne Shorter, come noto un geniale dilatatore dell'armonia, uno che ha saputo disegnare inusuali successioni accordali, tanto sinuose quando a loro modo angolari, zigzaganti, spiazzanti. Wheeler lima un po' questi angoli, sperimenta meno, ma è forse più commovente, più poetico.
Anche in "What Now?", notevole affresco dove le voci dei due strumenti a fiato ora si alternano secondo il classico schema della ballad, altrove si sovrappongono creando un gioco di attrito, di pieni e vuoti quasi sempre toccante. I tempi sono tendenzialmente soft, virati verso uno stile contemplativo e pulito, ma in brani come "Iowa City" si leggono anche una vena lievemente più aggressiva e una elasticità stilistica più marcate. Fra i brani, mi piace ricordare anche la cristallina "Verona", introdotta da un saltellante e brillante Taylor al pianoforte, e poi dipanata su un saliscendi melodico dei fiati che è fra le cose meglio pensate dell'opera.
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