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R Recensione

8/10

Janelle Monae

The Electric Lady

Torna a passo di danza – una danza frenetica, totale, “apocalittica” come recitano i titoli– Janelle Monae, fasciata nei suoi iconici e fumettistici smoking bianchi e neri, gli occhiali scuri e stravaganti, le volute sempre più ardite della crespa pettinatura, accompagnata dalla carica ritmica delle sue “Electric Girls”, replicanti dalla sensualità polimorfa e misteriosa. Torna a tre anni di distanza da un opera monstre come “The ArchAndroid”, uno degli album più originali, spiazzanti e musicalmente opulenti degli ultimi vent’anni non solo di black music ma della musica pop in senso generale. Torna nei panni del suo alter ego Cindy Mayweather, androide angelico/femminino, ribelle e prometeico, sceso sulla terra con la sua astronave funkadelica per portare all’umanità, attraverso la musica, un messaggio di pace, amore e speranza. Torna, infine e soprattutto, con un nuovo album intitolato “The Electric Lady” a proseguire l’ideale trilogia concettuale cominciata con l’ep “Metropolis: Suite I (The Chase)” (del 2007, addirittura) e sviluppata poi in tutta la sua magnificenza nel suddetto “The ArchAndroid”.

Un lavoro forse meno caleidoscopico ed eclettico del predecessore, più calibrato e qua e là magari anche un po’ manierista, ma ancora una volta miracolosamente sorretto da un livello di scrittura, produzione ed esecuzione che definire elevato è un eufemismo. Assistita al meglio dalla produzione firmata da Sean “Diddy” Combs e Big Boi e dall’apporto insostituibile del duo di coautori Deep Cotton e Roman GianArthur, la Monae gioca camaleontica con le contaminazioni sonore che meglio riflettono la sua plastica personalità e continua a sfidare ogni definizione critica, al punto che persino il volenteroso recensore dovrà, alla resa, riconoscere che quelle che meglio descrivono la sua musica sono quelle che lei stessa dà di se in versi come “electro-sophisti-funky lady” (con flow e metrica perfetti, per di più) o, facendo chissà il verso a Madonna, “an electric lady from the electric world”, come dire: pura energia in perpetuo movimento che assume forme diverse nello spazio e nel tempo, all’insegna della teoria della relatività.

Un flusso costante di energia musicale, come una suite articolata in brani dal formato più o meno regolare, che ha negli anni 80 e in un ipotetico, mimetico cyber-soul il suo riferimento retrofuristico, come un presente astratto e senza fine, un’isola virtuale, un passaggio dimensionale che le permette di accedere di volta in volta al passato o al futuro attraverso le curve dell’universo pop. Un crogiuolo di sonorità che si modellano anche utilizzando un’attenta strategia di partecipazioni e collaborazioni (Prince, Erykah Badu, Solange e Miguel, i nomi più celebrati e significativi), mai fine a se stesse ma, cosa sempre più rara, perfettamente armonizzate con la natura e lo sviluppo dei brani che le ospitano. Così, una volta sollevato il sipario con l’ouverture cinematica e “bondiana” di “Suite IV”, l’ascoltatore viene subito risucchiato nel remake di un Prince d’annata (con Prince stesso fra gli interpreti che ci omaggia d’un sontuoso assolo di chitarra) di “Give ‘Em What They Love”, costellata di rimandi sia musicali che metatestuali a brani come “Darling Nikki”; pure  al genio di Minneapolis e alla colonna sonora di un immaginario filmone d’amore anni 80 (qualcosa tra “Fiori d’Acciaio” e “Ufficiale Gentiluomo”) viene in qualche modo da pensare ascoltando il pathos e l’eleganza smooth soul di “Primetime”, impreziosita dal bel duetto con Miguel, dagli archi sintetici della Wondaland ArchOrchestra e dalle sgargianti parti di chitarra. Viceversa, nella fiammeggiante “Q.U.E.E.N.” assistiamo al fortunato incontro con Erykah Badu, l’altra regina del neo-soul (o sarebbe più corretto dire post soul, “il soul dell’avvenire” come ci permettemmo di battezzare quello di Erykah qualche anno fa) degli anni duemila, in un brano ricco di variazioni che parte come un p-funk, concede un languido stacco jazzy alla Badu verso metà e chiude con un combat soul rappato dalla stessa Monae in un testo che rivendica e sbandiera il diritto all’ambiguità, alla diversità artistica e personale delle due “regine”; tutto questo mentre il singolo più pompato e contagioso “Electric Lady” sembra la versione intelligente e “strutturalista” dei vari blockbuster delle varie Beyoncè, idealmente doppiato proprio dalla brava sorella di quest’ultima Solange.

Ma è l’intero album, nonostante la lunghezza complessiva, a snodarsi con sinuosa e sorprendente freschezza, assecondando la vitalità e le bizzarrie del concept e la vocalità proteiforme della sua interprete principale. Così al netto di qualche passaggio un po’ compiaciuto (il neo-soul anthemico di “Victory”, su cui a tratti sembra aleggiare - ma magari è solo un’impressione - il fantasma vocale della Winehouse), la Monae si libra con disinvoltura pirotecnica fra l’ esotismo pop da musical anni 40 di “Look Into My Eyes” e il lounge-jazz  sempre hollywoodiano di “Dorothy Dandridge Eyes”, punteggiato dallo scat latino di Esperanza Spalding, si fionda alla sua maniera nel revival disco in voga quest’anno con “We Were Rock’n’Roll”, fa resuscitare anche i morti nel giorno del giudizio con il girl-group afrofuturista di “Dance Apocalyptic”, fra zombie e scenari presi dai videgiochi arcade del solito decennio di cui sopra, un decennio a cui si deve anche l’omaggio alla giovane madre coraggiosa e lavoratrice e alla propria infanzia nel proletariato nero in “Ghetto Woman”. Poi, dulcis in fundo, abbatte gli ultimi steccati che separano i generi musicali nella sua fervida immaginazione con “Sally Ride”: l'impronta black che si ibrida con una sorta  folk  barocco ed orchestrale e un coro classico, quasi pastorale, con le chitarre sature ed alate al limite dell’AOR. Sebbene sopraffatti da tanta ricchezza musicale, vale la pena spendere due parole anche sui testi della Monae, dove le rime in stile hip-hop e l’uso del gergo afroamericano si aprono, talvolta, a versi dal nitore classico, a tratti quasi shakespeariano come “Like a rose in the cold, Will i rise?” da “Sally Ride” o il declamato “Red rose petals falling slowly through the sunny air/ Orange clouds, pink moons on the tongue of the sun” alla fine di “Dorothy Dandrige Eyes”, rivelando un lirismo particolarissimo e conturbante.

“The Electric Lady”, in conclusione, è la ridondante, ipnotizzante conferma dell’immenso talento della Monae che, lungi dal disperdersi o livellarsi, sembra incanalarsi in un formato presumibilmente più accessibile al grande pubblico, impressione che le eccellenti vendite della prima settimana di uscita parrebbero confermare. 

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 12 voti.
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REBBY 5,5/10
maxcoro 8,5/10
Soul-Pop 7,5/10

C Commenti

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Franz Bungaro (ha votato 8 questo disco) alle 9:07 del 30 settembre 2013 ha scritto:

Niente da aggiungere. Gira tutto benissimo. Tra le cose più belle dell'anno. Molto bello, anche, il disco.

NathanAdler77 (ha votato 7,5 questo disco) alle 1:22 del 12 ottobre 2013 ha scritto:

Buona la seconda: non avrà l'effetto sorpresa, la poliedricità retròfuturista o la schizofrenia enciclopedica di "The ArchanAndroid" ma è un ottimo second coming che colpisce nel segno e conferma Janelle la più talentuosa\ingorda secchiona in circolazione di avant-pop-soul. Un pastelloso afromusical post-moderno che ha imparato per benino la lezione di certi concept anni Novanta, lussu(ri)osamente zappiani, del Principe (vedi la comparsa del genietto di Minneapolis in brani come l'oscillante rock-soul "Give Em What They Love", con un assolo particolarmente in palla del Nostro). Passato e presente black che rimescola le carte oltre qualsiasi barriera di genere, dalle sincopi e synth memori del "Sign'O The Times" nella morbidosa sexyballad "Primetime" al James Brown rimodellato pop and roll del single "Dance Apocalyptic", dal duetto funkettone virato jazzy con la regina Badu ("Q.U.E.E.N.") ai replicanti de-luxe del solito MJ annata '79-'82 (la pregevole "Can't Live Without Your Love" e una "Dorothy Dandridge Eyes" che copula "I Can't Help It" con "The Lady In My Life") fino al synthpop cinematico eighties della conclusiva "What An Experience". Godibilissimo al pari dell'acclamato predecessore e dell'esaustiva rece di Simon.

FrancescoB (ha votato 8 questo disco) alle 13:20 del 28 ottobre 2013 ha scritto:

Discone, per me un gioiello. Siamo dalle parti di "Sign'O the Times", e personalmente credo che la Signora Elettrica sia la vera, grande erede del Principe. Questo disco scorre che è una meraviglia.

robcon1971 (ha votato 6 questo disco) alle 18:34 del 16 settembre 2014 ha scritto:

Assolutamente inferiore al precedente, deludente

lucamaadcity (ha votato 6,5 questo disco) alle 13:13 del 17 settembre 2014 ha scritto:

Un buon cd, ma quello precedente era tutta un'altra cosa (seppur qualcosa non mi aveva comunque convinto), aveva una magia tutta sua.... sono curioso di che direzione prenderà il prossimo lavoro.