V Video

R Recensione

9/10

D'Angelo

Voodoo

Cinque pezzi facili. Cinque “leggimi se ti va”. Cinque diversi e complementari sguardi a un mo(nu)mento (ri)fondante per la black music tutta. Cinque frammenti/fallimenti, in fila per tre col resto di due. Tempo medio di lettura per ognuno: cinque minuti (“…solo cinque vedrai…”). Allacciate le cinture. Datemi (diamoci) il cinque. Se vi va.

1. The Root (Dear Ol’ Neo)

L’eterno dilemma: esigenza espressiva o invenzione giornalistica (quando non trovata di marketing)? Nu (o neo) soul come effettivo ingarbuglio stilistico-emotivo o filone merceologico astutamente individuato dal “motowner” Kedar Massenburg? Possibile non mediare fra i due estremi? E le sfumature di grigio no? Tutto è una sfumatura, signori. Tanto vale sgombrare il campo da bipolarismi pleonastici e, molto semplicemente, riferirsi al nu-soul come categoria capace di fissare nel presente una serie di istanze creative appartenenti alle vecchie generazioni, rinnovandone spirito e forma. Per molti versi, ha rappresentato un cortocircuito spazio-temporale.

Nella seconda metà dei ‘90s, le tecniche produttive di Timbaland avevano segnato una cesura piuttosto netta con le saccariche rotondità swingbeat ancora ristagnanti nell’R&B dell’epoca, spingendo in una direzione futuristica di estrema – per quanto appetibile – non-musicalità: fratture scomposte al tessuto ritmico con caratteristico “cambio di marcia” del breakbeat, possibilmente influenzato dalla jungle londinese; ripensamento del ruolo dei sample nella veste sonora, facendo tesoro delle direttive  cut’n’paste di Mantronik; spostamento dell’attrattiva dalla melodia all’ambiente sonoro, in apparenza arredato secondo dettami minimalisti, in un alternarsi fra vuoti e pieni grazie al quale esaltare ogni timbrica. Il nu soul, da questo punto di vista, rimette indietro le lancette dell’orologio: ecco rispuntare dal dimenticatoio la mitologia Motown, i musicisti d’accompagnamento, il ruolo centrale del cantante (spesso autore), la liturgia gospel che torna a farsi strada nel fraseggio. Un riappropriarsi della tradizione che esula dalla mera convergenza dei fattori hip-hop e soul nell’equazione proposta da P. Diddy a inizio ‘90s, per richiamare invece un percorso (Tony! Toni! Tonè!) da alcuni inteso come parallelo – ma non propriamente “alternativo” – rispetto al dispiegarsi del continuum R&B.

Musicalmente, l’aspetto più significativo del nu-soul è sì stato questo ponte gettato fra il vellutoacciaio dei colossi ‘70s Tamla e l’essenzialità produttiva/l’intelaiatura ritmica dell’hip-hop, ma con in più una curiosità bohémien (oggi diremmo radical chic) per i riflessi “altri” della blackness e non (blues, crooning, jazz, quiet storm, latin). In Inghilterra, giusto agli albori del decennio ‘90, prendeva piede un fenomeno simile e per certi versi complementare: uno stilema che, però, marginalizzava o escludeva l’imput hip-hop, puntando invece i riflettori sulla tradizione del funk strumentale britannico, sul fenomeno pop di metà ‘80s conosciuto come “New Cool” (Style Council, Fine Young Cannibals, Swing Out Sister), sulla plasticità dance, sulla fusion. L’acid-jazz, insomma. Curiosamente – altro grande passaggio di testimone fra Inghilterra e Stati Uniti, e ben prima della cosiddetta terza British Invasion dei ‘00s – sarà proprio la passione per lo urban soul inglese ad animare diversi nomi della scena americana: Erykah Badu citerà Omar come fonte d’ispirazione, mentre Maxwell deciderà di lavorare con Stuart Matthewman, collaboratore (coincidenza!) di Sade.

Ma la palingenesi promossa dal nu-soul si svolge anche su un altro piano: quello di un rinnovato afrocentrismo, correlato alla riaffermazione della negritudine così come accarezzata/martirizzata dalla “Sweet Soul Music” e, più in generale, da ogni espressione musicale afroamericana. In primis dal jazz, “reo” d’aver invocato lo spettro di Madre Africa fin dal preistorico 1923, anno in cui Zulus Ball della Creole Jazz Band venne stampato a 78 giri per la gioia del pubblico “ruggente”. Nel soul esso ha trovato una cassa di risonanza privilegiata, intrecciandosi al movimento per i diritti civili e all’ascesa delle Black Phanters: una stagione utopica e irripetibile che ci riporta al look afro di Stevie, Sly e Aretha dei primi ‘70s (come non pensare al turbante fumettistico di Erykah Badu?), o alla semantica di brani come We’re Winners degli Impressions, Say It Loud, I’m Black And I’m Proud di James Brown, quella Rainbow Road di Arthur Alexander che, quintessenza country-soul, eleva il calvario del musicista di strada a paradigma della condizione di ogni artista di colore.

Tra tensioni amorose e romanticismo a mille, il nu-soul nutre la convinzione di sensibilizzare – quando non educare – il pubblico a tematiche serie (“food for the thought”, come lo definisce zia Erykah). Tematiche che il percorso naturale dell’R&B a cavallo fra ‘80s e ‘90s aveva sovente trascurato, e che l’hip-hop, assorbito dalla smania “il mio microfono è più grosso del tuo”, aveva troppo spesso convertito in competizione intestina. Resuscita, pure se vissuto da una prospettiva sardonica e intimamente postmoderna, quel trauma collettivo “che risale alla schiavitù, alla metodica quanto crudele separazione delle tribù, famiglie, genitori e figli, all’eliminazione di ogni rapporto consapevole di paternità, al regime di terrore che sistematicamente colpiva gli afroamericani, alla perdita della propria lingua, al divieto di suonare strumenti nativi, all’obbligo di cancellare il passato: un passato che, comunque, è riemerso e sopravvissuto in forme nuove e ha finito per improntare la cultura dei dominatori bianchi” (Luigi Onori, “Jazz e Africa”).

 

2. Who’s that nigga? – La “D’Angelo story” in pillole

“Voodoo” esce il 25 gennaio 2000, quando il suo artefice non ha ancora spento le ventisei candeline sulla torta di compleanno. Virginiano d.o.c., classe 1974, Michael "D’Angelo" Archer è un talento precoce: comincia a percuotere i tasti del pianoforte appena treenne, a nove anni già scribacchia canzoni, a diciotto ha una band (Michael Archer and Precise) e vince un concorso per nuovi talenti all’Apollo Theater. In the meantime, si fa le ossa in un gruppetto hip-hop, gli I.D.U. (Intellingent, Deadly but Unique). Nel 1991 firma per la EMI, che inizialmente decide di avvalersi dei suoi servigi esclusivamente come autore: U Will Know, da lui composta per il supergruppo Black Men United, nel ’94 sale fino alla ventottesima posizione Billboard (quinta nella R&B/Hip-Hop chart). Poco più di un giochetto, per Michael.

Al giro di boa dei vent’anni, il giovanotto già canta, scrive, arrangia e co-produce tutto il materiale. “Brown Sugar” (giugno 1995) lo consacra nome fra i più quotati della combriccola “nu”, raggiungendo il disco di platino. Poi cinque anni di nulla, cioè di tutto: cover di brani degli Ohio Players (gli déi del funk scesi sulla Terra), di Prince (Dio) e di Eddie Kendricks dei Temptations, disseminate in varie soundtrack; infine un duetto con Lauryn Hill per il pluripremiato “The Miseducation of…”. Soprattutto, cinque anni passati “all’Università del Soul” (gli Electric Lady Studios di Jimi Hendrix) a studiare i testi sacri, fumare nei campus durante le ore buche e intanto incidere senza sosta, con Erykah e Common lì per le session rispettivamente di “Mama’s Gun” e “Like Water To Chocolate”. Semplice (auto)celebrazione del collettivo Soulquarians? Non solo. È un po’ tutto il gotha della comunità nera (emblematiche le visite di Chris Rock) a fare capolino, poco a poco, negli studi. Tutti consapevoli che “something big was goin’ on”.

E, puntuale, “Voodoo” è quel “something big” la cui ricerca era stata eletta condicio sine qua non dell’esistenza persino dalla coppia Bacharach-David. L’album esordisce in testa alla Billboard Chart, vendendo 320.000 copie nella prima settimana. Vincerà due Grammy Awards, mentre il terzo singolo estratto (Untitled (How Does It Feel)) riuscirà ad accaparrarsi la vetta della R&B/hip-hop chart e a entrare per un pelo nella Top 25 di quella pop: risultato ammirevole ma, a ben vedere, inferiore a quello della blasonata Lady (da “Brown Sugar”), la quale non aveva esitato a scalare fino alla decima posizione della classifica generalista. Stavolta, però, c’è un video che desta scalpore perché D’Angelo vi appare nudo, anche se ripreso dalla cintola in su (le malelingue sostengono che, durante lo shooting, una signorina si stesse “prendendo cura” delle di lui parti basse). L’esibizione – marpiona ma vulnerabile, sfrontata ma leggermente imbarazzata – del suo fisico scolpito, oltre ad accalorare il pubblico in gonnella, s’impone all’attenzione dei sociologi al punto da far scrivere saggi come ”D’Angelo and the Visualization of the Black Male Body” (Keith M. Harris, 1999).

Il 1° marzo comincia il Voodoo Tour: durerà quasi otto mesi e ancora oggi, carta canta, viene ricordato come uno dei più deflagranti show del Pianeta Terra. Ma fra successi e continui sold out, per D’Angelo comincia lo stress. Prigioniero di paure e ansia da prestazione, intrappolato in un’immagine mediatica che non lo rappresenta e dalla quale si sente minacciato, il nostro uomo comincia a bere pesante, estraniandosi  da band e coetanei. Il problema? Lui vuole comunicare la sua arte, le fan vogliono il suo culetto sodo (ahi!). Soluzione: mollare tutto (sarà a sua volta mollato dalla compagna storica, la soul singer Angie Stone). Poco alla volta, però. Costruendosi un declino da favola.

E quindi niente più interviste, tanto per cominciare; poi un arresto per possesso di stupefacenti e ritiro della patente per guida sotto l’effetto degli stessi; e ancora il notevole aumento di peso, tanto che i suoi bicipiti ancora oggi restano un lontano ricordo; infine l’incidente automobilistico (19 settembre 2005, ad appena una settimana dalla condanna per possesso) dal quale esce vivo per miracolo. Da allora solo notizie frammentarie, contraddittorie. Qualche incisione viene alla luce, ma si tratta perlopiù di demo e ospitate in brani altrui. Niente roba a suo nome, o almeno niente roba ufficiale (escludendo una raccolta inutile come “The Best So Far…” del 2008). Ed è così che il fantomatico album del ritorno, tale “James River”, rischia di diventare il “Chinese Democracy” del nu-soul: annunciato come imminente già a fine 2006 (buonanotte…), il disco slitta prima al 2009, poi all’estate 2010 e infine all’autunno 2011 (ma anche qui non ci metterei la mano sul fuoco). Di certo c’è solo che D’Angelo sta incidendo con Ce-Lo Green, Raphael Saadiq e Mark Ronson. Alcune fotografie del 2007 ce lo presentano come un doppione di Barry White, e chissà che non sia proprio quella (!) la strada che il signor Archer voglia percorrere, anche musicalmente. Per ora, il nulla (cioè il nulla).

 

3. “We speak of darkness, not as ignorance, but as the unknown and the mysteries of the unseen” – C’è voodoo e “Voodoo”…

“Il vudù rappresentò per gli schiavi africani uno spiraglio di luce nella miseria della schiavitù” (Laurent Dubois, "Vodou and History" in Comparative Studies in Society & History, 43, n. 1; spiluccato da wikipedia)

Il critico Peter Guralnick, pur nella limitante accezione di soul come musica proveniente esclusivamente del Sud degli States, lo ha definito una “tensione consapevole (…) che precede il parossismo vero e proprio, che tutti sentono prossimo a giungere senza sapere quando. Il soul è una musica che continua ad accennare a una conclusione, a premere sui confini – di melodia e di convenzione – che si è imposta da sé”. Quindi una musica che ritualizza l’attesa, caricandola di valore poietico. Una drammaturgia emotiva e sonora nel quale il cantante s’impregna degli umori del pubblico e restituisce, amplificata e opportunamente articolata, l’onda d’urto del feeling; con in più la consapevolezza di “parlare all’anima” e, quindi, di far riferimento a livelli di coscienza più alti. Il parallelismo col gospel, nel quale il preacher guida i fedeli verso l’estasi catartica dello speaking in tongues, è inevitabile (essendo esso, del soul, l’humus). Altrettanto indubbio il legame che il gospel conserva con i moduli delle antiche religioni animiste africane, voodoo in particolare, dove il sortilegio ripetuto ad libitum e la danza consentono un interscambio col divino, un raccordo fra il mondo sensibile e quello spiritico.

Carico di valenze sensuali ed esoteriche, il voodoo custodisce le radici più feconde del popolo africano, radici che neppure le successive assimilazioni di elementi propri del cattolicesimo hanno potuto estirpare. Il sincretismo, in questo caso, è stato la forza motrice per il consolidarsi delle comunità di riferimento, l’adattamento in chiave evoluzionistica che ha permesso al culto di sopravvivere – nella pratica degli africani deportati nei Caraibi – e delinearsi nella sua interezza. Il camaleontismo ha fatto il resto: sia il voodoo di New Orleans che l’hoodoo (non una religione ma una forma di magia, diffusissimo soprattutto fra le comunità afroamericane degli stati del Sud) hanno attinto dal voodoo di Haiti, mettendone in risalto il versante magico. Non stupisca l’interesse di D’Angelo per suddette tematiche: cresciuto in una famiglia pentecostale, fin da bambino ha ben chiaro il potere attrattivo – a suo modo “magico” – dei carismi, del battesimo dello Spirito Santo, della possessione demoniaca (di cui, a suo dire, è stato testimone all’età di dodici anni).

Due le modalità con cui viene utilizzato il concetto di voodoo: 1) come protocollo cerimoniale, territorio di eccitazione primitiva; 2) come strumento di indagine, comunicazione, formazione e aggregazione.

Nel primo senso, D’Angelo impersonerebbe il sacerdote (oungan) che presiede al rito, guidando i Loa (gli spiriti del cosmo, manifestazioni della divinità primigenia) a prendere possesso del corpo del prescelto (l’ascoltatore) e, tramite esso, agire nella sfera sensibile. Il focus è il rituale: D’Angelo accorpa nel voodoo tutto il versante irrazionale della creazione musicale, il dionisiaco abbandono al ritmo, il battito primordiale, l’ipnosi del groove (chissà se per la sepolcrale Playa Playa aveva in mente La Banda, ballo erotico praticato in onore dei defunti). Da questo punto di vista, “Voodoo” può essere considerato il “Bitches Brew” del nu-soul. Come il Miles Davis elettrico, il giovane Archer si ciba di mitologia per poter fondere primitivismo e avvenirismo, leggenda e furore urbano, le civiltà perdute e le “utopie del futuro mitico” di cui parla David Toop.

Nella seconda accezione, D’Angelo vestirebbe i panni del medicine man il quale, constatata la malattia diffusasi nella tribù, si serve della magia per guarire il suo popolo. Centrale, in questa visione, è un rinvigorito concetto di “appartenenza”. Come spiega Mos Def nelle note al disco: “Nel prepararci per il viaggio, dobbiamo decidere quali elementi del nostro passato sonoro mettere in valigia e portare con noi verso questo nuovo giorno, verso questo nuovo suono”. Fissati i punti cardinali, D’Angelo viaggia (con la mente e col corpo) in lungo e in largo nella storia della musica afroamericana: dai field hollerings degli schiavi nei campi di cotone ai club di cool-jazz dei ‘50s; dagli spirituals negri di fine ‘800 alle slabbrature P-Funk di George Clinton; dai 45 giri pensati da Berry Gordy per la “nuova gioventù nera” ai sound system di strada, installati dalle prime posse a metà ’70s. Con questi frammenti, costruisce una genealogia storico-emozionale a cui fare riferimento, un percorso comune che funga da monito per le nuove generazioni.

Eppure è già tradizione manipolata, coagulata in una forma moderna (oserei dire avanguardistica). Mai rinnegata, però. Come per gli afroamericani agli albori della disco, intenti a iniettarle in corpo sonorità anni ’20, “la rievocazione della storia deve aiutare a sopportare il presente” (Peter Shapiro, “You Should Be Dancing”). A differenza di questi ultimi, ora il metodo non consiste nel “lottare contro la tradizione e scavare buchi nel suo tessuto spesso soffocante”, bensì nel farsi guidare da essa, lasciare che la rivoluzione germogli spontaneamente nel suo ventre, permetterle di condurci verso il nuovo. D’altronde, proprio la rivendicazione religiosa del culto voodoo è stata, alla fine del XVIII° secolo, la miccia capace d’innescare azioni rivoluzionarie da parte degli schiavi haitiani durante a colonizzazione francese, ribadendo le spinte uguali ed opposte (pulsione integrazionista contro tenace preservazione della propria identità culturale) che hanno caratterizzato l’agire del popolo africano dalla diaspora in poi. Ancora una volta, ritrovando (e manipolando) le radici (“Africa is my descent/ And here I’m far from home” da Africa), si costruisce il futuro. E come potrebbe essere altrimenti?

 

4. "Three is a Magic Number" aka “Come ti cucino il capolavoro in tre mosse”

Come da titolo, tre sono gli strati che mi preme analizzare della cipolla “Voodoo”: parti vocali, registrazione, interazione fra tecnologia e strumentazione organica (con un occhio di riguardo alla scrittura dei brani).

- Parti vocali

Seguendo le orme di Gaye, D’Angelo porta la creazione dei cori a vertici di complessità inaudita, veri e propri concentrati di contrappunto e linee vocali in sovrapposizione. Le tecniche impiegate vanno dal call and response allo sfasamento delle tracce, dalla ripresa di parole chiave alla densa concezione polifonica degli “insiemi”, fino al semplice e indistinto conflitto di polarità (acuti e gravi utilizzati contestualmente o in rapida successione). D’Angelo, insomma, crea spazi tridimensionali nei quali le sorgenti vocali sono autonome e assieme interdipendenti: ora furiosamente ritmiche, ora condensate in masse gassose che si disperdono nell’etere. Quasi un ibrido di pittura (le pennellate dell’ugola “solista”) e architettura (la progettualità dei cori). Ma anche questa distinzione appare fuorviante se si considera che è la stessa gerarchia fra le voci ad essere minata alla base. Il ricorso all’overdubbing è così massiccio che lo stesso cantante, l’“uno, nessuno, centomila” della situazione, sembra annullarsi nella moltiplicazione artificiale di segmenti vocali, scomponendosi nel turbine di frasi/versi/echi che affollano la sua mente. Conclusione: il proposito di Brian Eno di liberare il canto dai limiti della voce solista, utilizzandolo per “creare paesaggi, tinteggiature, nubi di suono”, trova finalmente piena applicazione nel campo della black music.

- Registrazione

Il paragone “Voodoo”/“Bitches Brew”, sfruttato qualche paragrafo fa, regge anche se ci si sposta sul lato puramente sonoro: stessa attenzione per il suono, le timbriche, il fluire indistinto del materiale. Spiega Luca Cerchiati (“Miles Davis – Dal bebop al jazz-rock (1945-1991)”): “Non ci si interrompe più, come un tempo, per realizzare versioni alternative alla prima di un dato pezzo, ma si lasciano i registratori accesi indefinitamente, finendo così col captare un indistinguibile flusso di prove, interruzioni, commenti vocali (…)”. Quello di D’Angelo e del co-producer ?uestlove (batterista e produttore dei The Roots) appare come un equivalente loose del metodo di lavoro adottato da Miles Davis e Teo Macero: registrare incessantemente, tentando di far scoccare la scintilla che presiede alla creazione.

L’ingegnere del suono, Russell Elevado, registra gran parte del disco in presa diretta utilizzando un equipaggiamento analogico, onde consentire a D’Angelo d’intervenire successivamente sull’ingente mole di nastro (120 ore, stando alle cronache). Se Macero sezionava, tagliava e incollava porzioni di jamming, similmente D’Angelo assembla flussi sonori gorgoglianti in cui ogni sfumatura non è mai men che essenziale; melmosi e oscuri rituali sonori nei quali la texture sopravanza rispetto a ogni altro parametro strutturale od organizzativo. Ascoltando l’inebetito flusso di coscienza di Chicken Grease, la sensazione che si ricava è proprio di una musica finalizzata non a svolgersi, bensì a propagarsi. Un agglomerato di tensione sottocutanea, che parte da George Clinton e, non si sa come, arriva al modus operandi dei Can. Una musica che si svela “in corso d’opera”, incorniciata da una serie di particolari abrasivi o sinuosi (il ticchettio ipnotico e lo scratching liquefatto di Dj Premier che infestano Devil Pie). Qualcuno ha criticato “Voodoo” definendolo post-soul, un disco “che affonda nelle sabbie mobili del suo stesso funk, sacrificando gli agganci melodici per un appeal ambientale”. Mai critica fu più bella (anche se la melodia ci sta eccome, non fatevi ingannare).

- Interazione fra tecnologia e strumentazione organica

Assieme a ?uestlove, D’Angelo mira a rendere calda la tecnologia. Come ottenere il risultato? Addizionando alle session un elemento di relativa imperfezione (inutile rimarcare l’influenza del compianto J Dilla), ossia l’essere umano. In realtà, spesso il procedimento è inverso: si cattura una performance e la si manipola, alterandone i valori produttivi o estrapolandone frammenti destinati a un ulteriore riprocessamento. Il procedimento ingloba quindi un fittissimo apporto di strumenti “veri” (uff…), quali fiati cool-jazz, chitarre trattate (notevoli quelle “in reverse”, sempre su The Root), percussioni assortite, un minimale Fender Rhodes (lo stesso usato da Stevie Wonder su “Talking Book”!) e parti di batteria leggermente fuori sincrono (pensiamo al colpo di rullante, sempre in anticipo di una frazione di secondo, che azzoppa “The Root”) che si configureranno come uno dei key themes più sconcertanti e caratteristici del disco.

Altro elemento da non sottovalutare è il bassista gallese Pino Palladino, pioniere del freatless durante gli ‘80s, poi tornato a frequentare jazz, blues e rock armato di un Fender Precision del ’63. È lui a modellare i groove grazie a un suono grasso, untuoso eppure indicibilmente elastico (notare il controllo del vibrato, evidente retaggio del suo “pensare freatless”), con lo strumento che prima espone la bass line guida e individua un seppur labile centro tonale, poi escogita licks che esulano da siffatta radice e irrigano gli spazi alti della tastiera, infondendo nuova cantabilità (“One Mo’ Gin”).

Il songwriting si adatta alle esigenze: percorsi melodici “aperti”, armonie spesso soltanto abbozzate, astutamente duttili, escogitate per essere facilmente adattabili alle increspature del tessuto strumentale (pensate a un pneumatico, progettato per adattarsi al tracciato stradale). Incredibile a dirsi, la prassi è ancora più evidente quando i rapporti di forza sono ribaltati, con netta prevalenza dei contributi live: la spedita Spanish Joint, profumata alla salsa e graziata dagli interventi degli ottoni; Send It On, conciliabolo di marimba, vibrafoni e ritmica caracollante: quasi il manifesto del neo-soul tutto; il jazz astrale di Africa, scaglie di cristallo Weather Report su un letto delicatamente percussivo. Sigillo dell’intero album e apice del postmodernismo d’angeliano, la ballad Untitiled (How Does It Feel), co-scritta da Raphael Saadiq, uno di quei momenti in cui il passato, presente e futuro paiono condensarsi in un’unica nuvoletta dorata sospesa a mezz’aria. (La canzone è senza titolo perché, effettivamente, può avere qualsiasi titolo. Non ha fine, e il brusco taglio a 7’07’’ – proprio dove non te lo aspetteresti mai – è lì a dimostrarcelo. Può appartenere a chiunque, e non solo a Prince che pure è il riferimento principale. Distilla l’essenza di tutti i lenti soul nel lento soul per antonomasia: puro, sempiterno archetipo semantico.)

 

5. M&M (Marvin & Michael): due canzoni a confronto

Dell’intero “What’s Going On” di Marvin, e della suite sul lato A in particolare, Flying High (In The Friendly Sky) resta l’episodio più straziante. Un’escrescenza tumefatta, dolorante. Un boomerang, che dall’universale di un discorso sui mali della contemporaneità e sul potere salvifico della fede, ritorna prepotentemente al particolare dell’esperienza soggettiva, al guardare dentro sé.

Strutturalmente, siamo di fronte a una delle pagine più sconvolgenti e “centrali” della musica popolare tutta: perfetto punto di congiunzione fra soul ballad, imprinting jazz, singhiozzi gospel e allucinazione psichedelica. Attaccano i tom di batteria, imperiosi, resi addirittura giganteschi in sede di missaggio; poi maracas e voci da giungla urbana, infine una linea ascendente di basso (cortesia dell’immenso James Jamerson, cuore della sezione ritmica Motown Funk Brothers e mito di un numero imprecisato di bassisti R&B e non) che imprime un moto sincopato all’intera struttura, un vacillare estasiato e terribile. È su di essa che si appoggiano il canto e l’orchestrazione (flauti, archi, la chitarra in riverbero, etc.). L’accordo è Mim9 con varie estensioni all’undicesimo grado, e non vi sono cambi per tutti i primi cinque versi della strofa (ma parlare di strofa/ritornello/strofa qui è fuorviante, essendo il brano un unico, fluido disegno melodico). Il passaggio dal Mim9 al Fa#m9 – un tono intero – equivale al titanico infrangersi di un iceberg nelle acque gelide della mente: a quel punto è una progressione dolorosa, un sinuoso/lancinante perlustrare il pentagramma toccando una serie di modi (pop modale?) per poi tornare, con rispettosa circolarità, all’accordo iniziale. Gli spazi sono ampi, sconfinati. La registrazione trabocca di echi che stordiscono, coi falsetti che si piangono addosso in un vortice impossibile da descrivere.

Decisiva è l’insistenza sul Mim9: un accordo, quello minore di nona, fortemente caratterizzante proprio perché interlocutorio, eppure autosufficiente, come se disponesse delle risorse per autoalimentarsi lungo il tragitto senza per questo dare l’idea di stabilità. Qualità ipnotiche che lo stesso James Brown aveva intravisto, tanto da spingerlo a utilizzare una oscillazione fra chord di minore settima e nona come nervatura per la seminale There Was A Time. Le peregrinazioni in accordo minore di nona, oltre che ossessione personale di chi scrive, restano un tòpos del soul più smooth (elenco infinito: si può arrivare fino alla Alicia Keys di You Don’t Know My Name e ancora oltre), nonché luogo privilegiato della musica popolare afroamericana (non sfugge nemmeno la disco: I’m Every Woman di Chaka Khan o Get On The Floor di Michael Jackson sono due fra gli esempi più noti).

Non che la prassi sia attribuibile tout court a Gaye, intendiamoci: l’utilizzo di moduli armonici analoghi può già rinvenirsi nelle sofisticate orchestrazioni Philly, nel soul di Chicago, e ancora prima il doo-wop ne aveva fatto (limitato) uso; per non parlare di tutta la tradizione torch songs e crooning, con Ray Charles a far da mediatore fra visi bianchi e neri. È però nel brano di Gaye, a mio giudizio, che l’espediente cambia pelle: le chiavi di volta sono da una parte il jazz modale e le improvvisazioni su un unico accordo di John Coltrane, dal’altra la haze percettiva dispensata da Norman Whitfield in capolavori psicotici come Smiling Faces Sometimes. A trionfare è la reiterazione, la sonorizzazione di un istante che si srotola al ralenti, la deformazione smokey di un trip lisergico grondante tragedia.

 

Altro scenario, altri tempi. Su The Line D’Angelo tronca ogni possibilità di sviluppo armonico, ancorandosi a un breakbeat in odore di narcolessia. Qui l’accordo (sempre Mim9, e resta quello per tutto il pezzo) si lascia soltanto intuire da un corpus di elementi distinti: il basso melmoso, che parte dalla tonica e s’inerpica fino al sol dell’ottava successiva, salvo poi franare nella seconda esposizione del tema; il “riffettino” in staccato; una nota di fa# tenuta da un synth scassato, e soprattutto gli sdoppiamenti vocali del leader. Elementi che giungono a maturazione quando un coro a tre voci, ciascuna in sequenza, espone un accordo perfetto di re maggiore (le cui note, nella nostra tonalità, corrispondono alla settima minore, alla nona maggiore e all’undicesima giusta). La produzione è curatissima, ma rispetto a Flying High tutto è più scarno, tagliente, nevrotico. Non c’è fuga consolatoria, né spazio per piangere. Si combatte, punto e basta.

Quasi trent’anni separano la canzone di Marvin da quella di D’Angelo. Cos’è accaduto alla black in questo lasso di tempo? Tantissime cose, ma almeno due sono quelle da cui non può prescindersi in questa sede: la nascita del’hip-hop e l’affermarsi del sistema di valori pop concepito da Prince (soprattutto nei suoi momenti più minimal). Variabili mica da poco. Variabili che in The Line fanno la differenza. Eppure c’è un filo tutt’altro che sottile che lega queste due song, aldilà delle affinità formali comunque evidentissime (stesso assestarsi sulla ripetizione dell’accordo minore di nona, stesso senso di stasi ipnotica, stesso flusso ritmico & melodico in cui si ravvisano palesi somiglianze nel fraseggio vocale). In entrambi i casi, infatti, è in scena la cognizione/estrinsecazione del dolore, la cronaca di un calvario. Due fra le performance più sofferte di sempre, con l’unica differenza nel modo di “portare” la canzone: laddove Gaye proveniva dall’enunciazione limpida di Sam Cooke, D’Angelo nuota nell’introversione solipsistica di Al Greene, resa ancor più travagliata dal suo continuo sottrarsi, dai suoi sottovoce criptici, da quel mumblin’ incompatibile con la dizione precisa dei singers R&B odierni.

Anche sul piano testuale è sorprendente come le due canzoni, pur partendo da premesse analoghe (la solitudine dell’individuo in un contesto indifferente od ostile), arrivino a conclusioni diametralmente opposte. Gaye, mimetizzando il proprio vissuto con quello, ideale, di un reduce dal Vietnam caduto vittima dell’eroina, cede all’escapismo, alla rassegnazione: “Flying high in the friendly sky/ Without ever leaving the ground/ And I ain't seen nothing but trouble baby/ Nobody really understands, no no/ And I go to the place where the good feelin' awaits me/ Self destruction in my hand/ Oh Lord, so stupid minded/ And I go crazy when I can't find it”. D'Angelo, alle prese con tormenti esistenziali, accanimento dei media e preoccupazioni della casa discografica, prepara l’offensiva armata contro il nemico: “I’ll go through the fire with you/ kill and die with you/ I know everybody watching me, the pressure is on/ from every angle, political to personal/ WillI hang or be left hangin’/ Will I fall off or will it be bangin/ I say it’s up to the man upstairs…”.

Pur non trattandosi di soluzioni definitive (sono pur sempre “l’uomo al piano di sopra” e “il ragazzo che trasforma gli uomini in schiavi” a dire l’ultima), restano ambedue ben delineate: l’una opta per la fuga verso i paradisi artificiali, l’altra per il confronto diretto – addirittura morboso, violento – con la (iper)realtà. Ed è in quest’ultima opzione che sembra manifestarsi il retaggio culturale dell’hip-hop anni ‘90, un apparente travaso di bile che parte dal millenarismo Wu-Tang Clan e, passando per le soffici pallottole gangsta, termina col fatalistico “ready to die” di Notorius B.I.G.. Allargando il discorso, potrebbe (potrebbe…) quasi affermarsi che la posizione di D’Angelo rispecchi il degrado della comunità nera, ancora scossa per la faida hip-hop tra East Coast e West Coast.

In realtà qui non c’è compiacimento alcuno per crimine, sangue, violenza. D’Angelo parla per metafora: la sua battaglia si esaurisce col “put it on the line”, correre il rischio, esporsi in prima persona, “elevarsi spiritualmente” (speravo di non usare quest’espressione…). Il sentirsi al centro di un mirino e voler “rispondere al fuoco”, preso non alla lettera, rientra nel ventaglio di possibilità che ciascuno di noi ha a disposizione per opporsi. Marvin, atterrito di fronte alle brutture del mondo, ha preferito distogliere lo sguardo e celebrare simulacri carnali (ecco la disperazione pungente di un capolavoro come Let’s Get It On: il sapere che, nonostante il gaudio di sesso/lenzuola di seta rosse/candele accese, dietro l’angolo c’è qualcosa di terribile che non si vuole guardare, qualcosa la cui semplice vista fa troppo male). D’Angelo ha voluto correre il rischio, ha lottato. E alla fine ha vinto e ha perso, come chiunque. Marvin e Michael: così uguali, così diversi.

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Cas 9/10
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DavideC 10/10
gramsci 9,5/10
Steven 7,5/10
ciccio 9/10

C Commenti

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ozzy(d) (ha votato 9 questo disco) alle 13:15 del 25 luglio 2011 ha scritto:

ma nel video c'era una tipa che gli stava facendo un servizietto ghghgh? gran disco e super dissertazione!

salvatore alle 13:43 del 25 luglio 2011 ha scritto:

Se non è talento questo... Non parlo del cantante (che devo approfondire), ma del signor Recensore che se ne è occupato. E vabbé si vede che il mondo va così...

Cas (ha votato 9 questo disco) alle 13:49 del 25 luglio 2011 ha scritto:

Disco stupendo, recensione superlativa!

Filippo Maradei alle 15:33 del 25 luglio 2011 ha scritto:

Non conosco il disco (né l'artista), ma i pezzi sopra mi piacciono tantissimo: e la recensione, stupenda. Complimentissimi! Ripasserò fra qualche tempo.

Filippo Maradei alle 15:40 del 25 luglio 2011 ha scritto:

E ora capisco perché ti piaccia tanto (come me) "Gravity" di Woon... questo album è da recuperare, cazzo.

Lezabeth Scott (ha votato 10 questo disco) alle 18:27 del 25 luglio 2011 ha scritto:

Musica e muscoli ME-RA-VI-GLIO-SI. E ora anche la recensione, cosa si può desiderare di più?

synth_charmer alle 20:24 del 25 luglio 2011 ha scritto:

ci sono i recensori dilettanti, i critici di livello superiore, e poi c'è il los metà delle cose che hai detto mi ci vorrà un bel po' di tempo per capirle (molto interessante quella riflessione sul soul come attesa, voglio assorbirla per bene con gli ascolti), ma cacchio che scrittura, c'è da perdersi! 'sto ragazzo ha troppe cose in testa, non riesce più a controllarle, gli sfuggono via senza controllo e questi sono i risultati oppure trattasi questa di una lettera d'amore, los?

swansong alle 9:59 del 26 luglio 2011 ha scritto:

Il solito, monumentale, Los!

per quanto mi riguarda, poi, a giudicare dal genere proposto, il recensore supera nettamente il valore del disco commentato...ma darò comunque una chance, ovvio! E dopo il frettoloso ascolto di quella Spanish Joint là sopra, eccome se la darò..

REBBY (ha votato 5 questo disco) alle 18:26 del 26 luglio 2011 ha scritto:

Ma certo Matteo, do il cinque a te ed anche a D'Angelo. 5 + 5 = 10 eheh

ozzy(d) (ha votato 9 questo disco) alle 14:12 del 3 agosto 2011 ha scritto:

rebby hai messo solo 5 a questo capolavoro? spero sia uno scherzo ghghghgh

REBBY (ha votato 5 questo disco) alle 16:19 del 9 agosto 2011 ha scritto:

massi hai ragione ghgh il cinque al Los è uno scherzo! A sto disco forse avrei dovuto dare 6 come hai fatto tu con OK computer, sarei stato più democristiano. A me sto capolavoro non garba, anche se capisco che non è proprio na schifezza (la voce, i riferimenti colti, blablabla). Eppoi a me i palestrati stanno quasi tutti sui coglioni (sarà come dice mia figlia che sono invidioso?) eheh

DavideC (ha votato 10 questo disco) alle 15:00 del 13 marzo 2012 ha scritto:

Il disco è uno dei miei preferiti / più ascoltati di sempre, ma questo articolo riesce ad approfondire alcuni aspetti che non avevo mai neanche considerato, spiegandoli alla perfezione. Applausi

Mirko Diamanti (ha votato 6 questo disco) alle 13:29 del 8 aprile 2012 ha scritto:

Imperdonabile mancanza di sostanza imperdonabilmente accusata per una durata che il disco non si può permettere. Discreto, ma poteva essere molto di più.