Arcade Fire
The Suburbs
Appuntamenti al buio, attese, indiscrezioni. Anticipazioni e procrastinazioni. Grande fiducia ma anche dubbi, timore di trovarli diversi, cambiati. Che ciò che fino ad ora è stato speciale possa diventare tragicamente comune, banale. Tutte dinamiche che rientrano ampiamente nella norma quando in ballo c'è il terzo disco degli Arcade Fire. Il gruppo simbolo di questa seconda parte di decennio, almeno per quanto riguarda l'alt-rock. Superstar loro malgrado. La band che ha incantato il mondo con una perfetta cesura fra indie e mainstream. Quelli che piacciono a tutti. Capaci di mettere d'accordo anche gli antipodi, in questo big bang musicale fatto di nicchie e camerette, con quella loro ambrosia, distillata con cura nell'arco di soli due album, dove si miscelano sapientemente pop corale, post wave, indie-rock di scuola velvettiana, folk bandistico, afflato comunitario ed epica orchestrale. Un nome, una garanzia. Quando di mezzo c'è la sigla AF c'è poco da scherzare: hai tutti gli occhi puntati addosso e non puoi sbagliare.
Un pericolo che il gruppo guidato da Win Butler e Regine Chassagne riesce, tutto sommato, a scongiurare anche con questo The Suburbs. È bene precisarlo subito, in barba ad ogni senso della suspence, anche per placare l'ansia e la curiosità di eventuali fan intenti a smanettare il cursore alla loro destra alla ricerca della riga esatta in cui scioglieremo la prognosi. The Suburbs è un lavoro abbastanza solido, discretamente prodotto (l'”eniano” Markus Dravis, già rodatosi con Neon Bible), ben architettato, fedele alla maniera altamente artigianale del gruppo di stanza a Montreal. Ravvivato da una mezza dozzina, circa, di buone canzoni e appesantito da qualche passaggio non esattamente memorabile. Come per l'art-work, dove pare siano state ideate e predisposte otto copertine alternative, l'impressione è che, anche per quanto riguarda la scrittura, il gruppo sia stato un po' restio a scegliere, a sfrondare, a ridurre all'essenziale, trascinandosi dietro molto materiale, piuttosto eterogeneo in certi punti, pur di accontentare tutti. Questo, in sintesi, il difetto più evidente. Questo e il fatto che, a prima vista, fra le sedici tracce che compongono il nuovo lavoro mi sembra difficile intravedere pantheon di note semoventi sul livello di una Wake Up, o di una Intervention o, che so io, My Body Is A Cage. Però, chissà, qualche piccolo classico può sempre crescere col tempo.
Di sicuro, rispetto al recente passato, c'è che Butler & soci hanno leggermente ridotto la loro strumentazione, semplificato un po' gli arrangiamenti, aggiunto qualche inserto elettronico e sfogato una o due escrudescenze rock'n'roll, ma senza intaccare la in modo sostanziale la cifra del loro sound. Da promuovere senza mezzi termini: l'honky-pop bandistico e arioso della title-track, la pop-wave anni 80 con crescendo pastorale dell'anthemica Modern Man, il loro maggiore hit potenziale, il pomp-punk (una sorta di ELO + Velvet Underground, violini scroscianti su rock brullo e percussivo) di Empty Rooms, cantata dalla Chassagne, il bel dittico di Half Light I, ascensione confessionale e orchestrale come da manuale arcadiano, e Half Light II (No Celebration), sempre liturgica ma piantata su un substrato electro quasi “berlinese”, l'attitudine alla longa marcia folkish e corale di Deep Blue e al sonetto da camera di Sprawl (Flatland). Il resto delle sedici canzoni (decisamente troppe, come accennavamo sopra) si attesta qualche (mezzo) gradino più sotto: il sinfonismo sfarzoso ma un po' tronfio, ostentato di Rococò, la discreta progressione di We Use To Wait, il bel giro jingle-jangle - quasi smithsiano - di Suburban Wars, toccando momenti di rara futilità solo in due o tre episodi (City With No Children, Wasted Hours). Sorpresina finale con la divagazione disco di Sprawl (Mountains Beyond Mountains), effimera e lontana dalle loro corde quanto volete ma, almeno a giudizio di scrive, tutt'altro che sgradevole.
The Suburbs ripropone un gruppo comunque in salute, che rallenta un po' il passo, restando immerso nel guado della sua consacrazione. Si tratta di vedere se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto. Di certo farà discutere e forse, per la prima volta nella loro breve carriera, dividerà. Questo è il mio parere. Ora, a ciascuno il suo.
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