Gogol Bordello
Seekers And Finders
Il mondo è pieno di misteri che, per quanto mi sforzi, sfuggono completamente alla mia limitata comprensione. Per dirne un paio: riusciremo mai a contrastare i cambiamenti climatici? Quando troveremo una cura a tutte le malattie? Che ruolo gioca la materia oscura allinterno delluniverso? Esiste Dio? A cosa serve e a chi parla, esattamente, un disco dei Prophets Of Rage? E per quale motivo i Gogol Bordello si ostinano a dare continuità ad una produzione studio che può dirsi qualitativamente irrilevante almeno da Trans-Continental Hustle in avanti? Intendiamoci: ho molto amato il circo itinerante capitanato da Eugene Hütz, e il fanciullino che sonnecchia in me ancora sfodera i ghigni dei tempi migliori al risentire Gypsy Punks: Underdog World Strike, il disco-evento del 2005 che li consacrò (giustamente) fenomeno globale. Nel mentre, sono passati dodici anni: dodici anni di vita intensa ed intensamente vissuta sopra e sotto il palco. Oggi, la sostanza di un cambiamento-non cambiamento viene magistralmente riassunta dal primo verso della title track del settimo Seekers And Finders, un lento piacione condiviso con Regina Spektor (?): Not all horses are gonna need blinders / Not all seekers will be finders. Ecco: i Gogol Bordello, oggi, hanno smarrito il gusto della ricerca prima ancora della soddisfazione della scoperta.
Un ascolto non lo si nega a nessuno, per carità: tanto più che Seekers And Finders è di gran lunga lepisodio più agile e conciso della loro discografia (trentasette minuti contro la media di cinquanta dei precedenti lavori). Non sono però ponderatezza e generosità a spingere verso la semplificazione: anzi, la scaletta del disco è ricolma di passaggi a vuoto, dai raccapriccianti Dropkick Murphys sotto steroidi di Saboteur Blues (con melodia sgraffignata a Lost Innocent World e ritornello cosmopolita del tutto fuori luogo) al western inamidato di Love Gangsters (tra ghirigori di violino e fugaci apparizioni di banjo: in mezzo, anche se non si sente, ci finisce anche Nick Zinner di Yeah Yeah Yeahs e Head Wound City), dallincolore incalzare bandistico di You Know Who We Are (Uprooted Funk) ai melismi strappalacrime di Walking On The Burning Coal (larrangiamento di tromba è del nostro Roy Paci). Non unidea a pagarla oro, in breve, tanto che il ripiegamento verso lo stereotipo è pressoché immediato (lambio gypsy di Did It All, la pappa risaputa di Break Into Your Higher Self).
A voler cercare, col famigerato lanternino, del buono anche lì dove non ce nè, si potrebbe dire che la telefonata andatura ragga di If I Ever Get Home Before Dark presenta degli interessanti contrappunti chitarristici, che lo scatenato finale in crescendo di Familia Bonfireball (lunghissima!) è a suo modo coinvolgente e che il vibrafono di Mauro Rifoso regala a Clearvoyance quel tocco exotic che non ti aspetti: ma sono inezie artificiose, insignificanti piccolezze rispetto a quello che i Gogol Bordello erano in grado di fare appena una decade fa, quando i dischi venivano chiusi da ottovolanti impazziti (Mishto!, Super Taranta!) e non da innocue ballate come Still That Way.
Il consiglio spassionato, fuori dai denti, è quello di non lasciarsi adulterare i bei ricordi dal ben poco felice corso recente. A meno che non facciate parte della schiera dei cosiddetti irriducibili, chiaramente Nel qual caso, aggiungete un mistero insolubile alla lista di cui sopra.
Tweet