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R Recensione

8/10

Regina Spektor

Far

Prigionieri di una hit. Ho sempre pensato che il rimanere per tutta una carriera al servizio di un proprio pezzo, vuoi per alterne fortune commerciali o per improvvisa disaffezione del piccolo/grande pubblico, fosse una delle cose più incomprensibili mai viste su questo mondo. L’artista non è solo chi scrive il brano, ma anche colui che ne segue la crescita, lo coccola, si affeziona, lo sa quindi dominare, attraverso un coscienzioso rapporto di lealtà reciproca. Il venire sopraffatti da una propria creatura, a tal punto da pensare bene di recarsi all’anagrafe per cancellare un po’ di croste del passato, è sinonimo di nullità professionale ed estrema fragilità personale: un boomerang che presto fa a ritorcersi, oltre che sul piano strettamente lavorativo, anche su quello intimo e corporeo del singolo individuo, con effetti micidiali.  

Fortunatamente, Regina Spektor è una ragazza troppo intelligente per venire piegata da queste inezie di poco conto. L’improvviso – e meritato – successo di “Fidelity”, singolo trainante dello splendido “Begin To Hope”, 2006, dev’essere stato sicuramente uno schiaffo in pieno volto, a rintontimento progressivo, per una giovane pianista russa, scoperta al tempo da Julian Casablancas, ed abituata, sino a quel momento, ad autoprodursi i propri dischi, secondo una logica diy da sempre irresistibile e portata, prima o poi, ad un sostanziale incremento di consenso. Sarebbe stato curioso vedere quale etichetta, col senno di poi, avrebbe deciso di pubblicare lavori come “11: 11”, ovvero quanto di più distante dai suoni scarni ed ovattati del sopracitato singolo: isterie, profondi graffi su tele bianche – e dopo volete che non si parli di Lucio Fontana? –, canzoni spesso frammentate in mille piccoli istanti da ricomporre a piacimento, secondo criteri personali, e riproposte poi in live da fermare nella memoria sino all’ultimo, spasmodico gesto di rabbia.  

Otto anni dopo l’esordio, con alle spalle il colosso Warner ed un bel po’ di soldini in più per mettere a fuoco la propria vena artistica (che, credetemi, in Regina affiora veramente poderosa), in “Far” solo la formazione rimane uguale. Tracce semplici, candide, dove il piano viene sempre più spesso arricciato in onde sonore che accompagnano e cavalcano con eleganza la splendida voce della cantautrice, davvero simile alla Tori Amos di “Boys For Pele” (i paragoni con Fiona Apple, per quanto mi riguardano, non trovano riscontro), con l’aggiunta di chitarre – sempre molto leggere – e batteria. Quello che tende, ormai massimamente, ad evidenziarsi è la grande capacità di armonizzazione che la musicista sovietica, passo dopo passo, ha fatto sua a scapito dei primi componimenti, che le avevano fatto conquistare la palma di “regina – è il caso di dirlo – dell’anti-folk”. Un metodico lavoro, sempre più incentrato sulla forza delle melodie, che rimangono tuttavia assai ispirate e raramente prevedibili, siano esse il buffo passo di danza compresso nel bel pianoforte di “The Calculation” (destinata a diventare il prossimo centro radiofonico) o il drammatico andantino di “Blue Lips” (“Blue lips, blue veins / Blue, the colour of our planet from far, far away / Blue, the most human colour”: ora capite il perché di quello Steinbeck variopinto in copertina?), quasi Nick Cave al femminile, con una rosa sopra lo strumento.

Attenzione, però, a non equiparare tutto il disco sui due brani d’esempio, dividendolo in due – anima felice / anima riflessiva: facilissimo da dire, no? –: sarebbe quantomeno falso e poco corretto nei confronti di un insieme, di un’unità (ecco perché insistere sulla contrapposizione all’affascinante scissione degli inizi) che di cose da dire ne ha parecchie. Pur essendo, fondamentalmente, basato sul dittico pianoforte/voce, “Far” sa essere ben più che piacevole in parecchie occasioni, prendendo varie direzioni ed aprendo nuovi scenari sulla maturità stilistica di Regina. “Folding Chair” è swing in solitaria, con ritornello corale: “Machine” è il pezzo mai scritto per la colonna sonora di “The Prestige”, cupo noir dai virtuosismi vocali – sentite un po’ dove vola la voce della pianista! – disturbato da pizzicori industriali; “Laughing With” è davvero quello che si può definire minimale, spogliata da ogni essenza e carica di un’amarezza testuale difficile da comprendere appieno, senza le parole sotto mano. L’unica cosa che sembra, effettivamente, troppo sopra le righe è “Dance Anthem Of The 80's”, pop un po’ elettronico dagli arrangiamenti sofisticati che ricorda gli ultimi Architecture In Helsinki ma, ahimè, troppo fuori la portata della Spektor.

Con nostra grande sfortuna, gli indie-kids alla ribalta la eleggeranno probabilmente come loro nuovo idolo, privandola di gran parte dell’attenzione critica che, altresì, meriterebbe in pieno, se non altro per la perseveranza dimostrata e per la capacità di mutare pelle (leggi: versatilità). La rinnovata musicalità non deve far storcere il naso ai puristi della prima ora ma, anzi, deve gettare una nuova luce ad illuminare tutte le sfaccettature che davvero possiede. Il semi post rock di “Eet”, importante crescendo che di chitarristico non ha praticamente nulla, mette i brividi per intensità, così come la ballad “Human Of The Year”, dalla prestazione vocale strepitosa, ed il gospel raccolto di “Man Of A Thousand Faces”, che suona alieno ed isolante. Nulla, tuttavia, in confronto a “Genius Next Door”, con apertura neoclassica ed andamento dinoccolato, una piaga dolente su cui il pianoforte cala copioso, in un flusso sonoro pressoché ininterrotto.

Dite che possa bastare?

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C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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hiperwlt alle 18:34 del 21 novembre 2009 ha scritto:

l'album in questione mi sta piacendo proprio: "dance anthem of the '80"per ora, la mia preferita.

woodjack alle 22:10 del 17 febbraio 2016 ha scritto:

è il caso di dire "prigioniera di una hit"... riascoltavo giusto il disco di Fiona, quello del 2012 col titolo lunghissimo che non imparerò mai (poco male)... la mia compagna fà: "sembra Regina Spektor".... - "ma chi quella che cantava a-aaà-aaà-aaaaa ecc" - "eh ma mica ha fatto solo quello..." e mi spara Pavlov's Daughter, anno 2001... "quando non era nessuno". Scrittura anarchica, pianismo sciolto, voce versatilissima, stile completamente fuori, ci puoi leggere qualsiasi cosa dentro a seconda del punto della canzone in cui premi il tasto pausa. E chi se l'era mai filata! Ho ascoltato Soviet Kitsch del 2004, che mi pare un punto di incontro fra sperimentalismo johnstoniano e un cantautorato alla Amos ma più multidirezionale, non è tutto a fuoco, ma non è detto che sia importante, è lo stato di ubriachezza da vodka liscia. Mi procuro il resto e ripasso. Ottimo Marco, accetto consigli e approfondimenti.

Marco_Biasio, autore, alle 18:22 del 10 dicembre 2016 ha scritto:

Scusami se ti rispondo con questo ritardo non mi ero accorto del commento. Ti ringrazio del passaggio. La cesura nella sua carriera da Soviet Kitsch in poi è abbastanza evidente (i primi dischi sono molto più anarchici), ma nell'ultimo decennio ha piazzato almeno altri due bei colpi: questo (patinato quanto si vuole, ma con dei brani della madonna) e l'ultimo, Remember Us To Life, di cui uscirà la recensione lunedì. Lei è adorabile e intelligentissima, e il suo stile molto ricco e particolare. Se volessi approfondire, ti direi di partire da Far.