Regina Spektor
Far
Prigionieri di una hit. Ho sempre pensato che il rimanere per tutta una carriera al servizio di un proprio pezzo, vuoi per alterne fortune commerciali o per improvvisa disaffezione del piccolo/grande pubblico, fosse una delle cose più incomprensibili mai viste su questo mondo. Lartista non è solo chi scrive il brano, ma anche colui che ne segue la crescita, lo coccola, si affeziona, lo sa quindi dominare, attraverso un coscienzioso rapporto di lealtà reciproca. Il venire sopraffatti da una propria creatura, a tal punto da pensare bene di recarsi allanagrafe per cancellare un po di croste del passato, è sinonimo di nullità professionale ed estrema fragilità personale: un boomerang che presto fa a ritorcersi, oltre che sul piano strettamente lavorativo, anche su quello intimo e corporeo del singolo individuo, con effetti micidiali.
Fortunatamente, Regina Spektor è una ragazza troppo intelligente per venire piegata da queste inezie di poco conto. Limprovviso e meritato successo di Fidelity, singolo trainante dello splendido Begin To Hope, 2006, devessere stato sicuramente uno schiaffo in pieno volto, a rintontimento progressivo, per una giovane pianista russa, scoperta al tempo da Julian Casablancas, ed abituata, sino a quel momento, ad autoprodursi i propri dischi, secondo una logica diy da sempre irresistibile e portata, prima o poi, ad un sostanziale incremento di consenso. Sarebbe stato curioso vedere quale etichetta, col senno di poi, avrebbe deciso di pubblicare lavori come 11: 11, ovvero quanto di più distante dai suoni scarni ed ovattati del sopracitato singolo: isterie, profondi graffi su tele bianche e dopo volete che non si parli di Lucio Fontana? , canzoni spesso frammentate in mille piccoli istanti da ricomporre a piacimento, secondo criteri personali, e riproposte poi in live da fermare nella memoria sino allultimo, spasmodico gesto di rabbia.
Otto anni dopo lesordio, con alle spalle il colosso Warner ed un bel po di soldini in più per mettere a fuoco la propria vena artistica (che, credetemi, in Regina affiora veramente poderosa), in Far solo la formazione rimane uguale. Tracce semplici, candide, dove il piano viene sempre più spesso arricciato in onde sonore che accompagnano e cavalcano con eleganza la splendida voce della cantautrice, davvero simile alla Tori Amos di Boys For Pele (i paragoni con Fiona Apple, per quanto mi riguardano, non trovano riscontro), con laggiunta di chitarre sempre molto leggere e batteria. Quello che tende, ormai massimamente, ad evidenziarsi è la grande capacità di armonizzazione che la musicista sovietica, passo dopo passo, ha fatto sua a scapito dei primi componimenti, che le avevano fatto conquistare la palma di regina è il caso di dirlo dellanti-folk. Un metodico lavoro, sempre più incentrato sulla forza delle melodie, che rimangono tuttavia assai ispirate e raramente prevedibili, siano esse il buffo passo di danza compresso nel bel pianoforte di The Calculation (destinata a diventare il prossimo centro radiofonico) o il drammatico andantino di Blue Lips (Blue lips, blue veins / Blue, the colour of our planet from far, far away / Blue, the most human colour: ora capite il perché di quello Steinbeck variopinto in copertina?), quasi Nick Cave al femminile, con una rosa sopra lo strumento.
Attenzione, però, a non equiparare tutto il disco sui due brani desempio, dividendolo in due anima felice / anima riflessiva: facilissimo da dire, no? : sarebbe quantomeno falso e poco corretto nei confronti di un insieme, di ununità (ecco perché insistere sulla contrapposizione allaffascinante scissione degli inizi) che di cose da dire ne ha parecchie. Pur essendo, fondamentalmente, basato sul dittico pianoforte/voce, Far sa essere ben più che piacevole in parecchie occasioni, prendendo varie direzioni ed aprendo nuovi scenari sulla maturità stilistica di Regina. Folding Chair è swing in solitaria, con ritornello corale: Machine è il pezzo mai scritto per la colonna sonora di The Prestige, cupo noir dai virtuosismi vocali sentite un po dove vola la voce della pianista! disturbato da pizzicori industriali; Laughing With è davvero quello che si può definire minimale, spogliata da ogni essenza e carica di unamarezza testuale difficile da comprendere appieno, senza le parole sotto mano. Lunica cosa che sembra, effettivamente, troppo sopra le righe è Dance Anthem Of The 80's, pop un po elettronico dagli arrangiamenti sofisticati che ricorda gli ultimi Architecture In Helsinki ma, ahimè, troppo fuori la portata della Spektor.
Con nostra grande sfortuna, gli indie-kids alla ribalta la eleggeranno probabilmente come loro nuovo idolo, privandola di gran parte dellattenzione critica che, altresì, meriterebbe in pieno, se non altro per la perseveranza dimostrata e per la capacità di mutare pelle (leggi: versatilità). La rinnovata musicalità non deve far storcere il naso ai puristi della prima ora ma, anzi, deve gettare una nuova luce ad illuminare tutte le sfaccettature che davvero possiede. Il semi post rock di Eet, importante crescendo che di chitarristico non ha praticamente nulla, mette i brividi per intensità, così come la ballad Human Of The Year, dalla prestazione vocale strepitosa, ed il gospel raccolto di Man Of A Thousand Faces, che suona alieno ed isolante. Nulla, tuttavia, in confronto a Genius Next Door, con apertura neoclassica ed andamento dinoccolato, una piaga dolente su cui il pianoforte cala copioso, in un flusso sonoro pressoché ininterrotto.
Dite che possa bastare?
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