A Primavera Sound Festival - Barcelona 2011

Primavera Sound Festival - Barcelona 2011

Sono tempi agitati ma buoni in Spagna: i giovani indignados occupano le piazze, chiedono una democrazia partecipativa senza collusioni fra politici e banchieri, un sistema pulito di solida occupazione lavorativa e graduale disoccupazione militare; una rivoluzione d'intenti e di idee, pacifica ma tenace [Video]. E nel frattempo, pur non ottenendo garanzie né risposte dal governo, al contrario subendo violenti cariche "di sgombero" dalla polizia [Video], ecco che la protesta si fa internazionale, diventa francese per essere trasportata dalle mani – anzi, le gambe incrociate – degli indignés parigini, indignant scozzesi, empört tedeschi. E nel frattempo il Barcellona vince la Champions League [Video]. E nel frattempo risuona l'eco del Primavera Sound Festival.

 

Mai come in questa edizione il concetto di quantità viene portato al suo estremo positivo, quasi al confine con l'imbarazzante. Non importa di cosa perché è di tutto: artisti, gentil sesso, palchi, punti wi-fi gratuiti, stand per mangiare e bere e collezionare. E vicino al quanto c'è pure un come che trova posto, laddove il tutto è sì tanto, ma soprattutto di gran qualità... panini a parte. Ma andiamo con ordine.

 

Il caldo è l'impatto primero nella realtà catalana: afa e sole fino a serata inoltrata, un termometro incollato sui 38°, e l'idea, presto trasformata in certezza, che boxer e ventilatori accesi saranno di poco aiuto nelle ore di stanca mattutina. Se non altro, come discreta consolazione, è rimasta la consapevolezza di un tempo atmosferico favorevole per i concerti all'aperto, che rappresentavano poi la stragrande maggioranza. Ma favorevole non è stato solo il clima – frizzante e pioggerello solo nel secondo dei tre giorni a Parc del Fòrum (il complesso portuale dove si è tenuto il grosso del Festival) –, quanto piuttosto una completa organizzazione, ottimizzata in quasi tutti gli aspetti più importanti, a garantire un comfort degno di tale evento [Video]; puntualissimi gli orari dei concerti, non sempre perfetti nelle coincidenze (è il caso, per quanto mi riguarda isolato, Blake-National che spiegherò più avanti) ma molto spesso ben coordinati tra loro, specie per le distanze non eccessive tra i vari palchi; e proprio per i palchi non si può non fare una menzione d'onore all'acustica, davvero buona all'aperto, quasi mai disturbante se si tiene ancora conto della simultaneità di molti concerti, ed eccelsa all'Auditorium (privilegio per pochi, purtroppo, come vedremo); ottima poi la velocità negli ingressi, con il classico sistema di riconoscimento braccialetto-tessera, certamente scontato e ovvio, ma rapido e davvero intuitivo alla prova dei fatti; a completare l'opera, infine, numerosi accessi wi-fi gratuiti sparsi un po' ovunque, una moltitudine pressocché infinita di punti ristoro – su cui però pende la grossolana ingenuità di un metodo di pagamento troppo macchinoso e articolato, fortunatamente risolto in tempi brevi, per il quale si era costretti a ricaricare prima la tessera del Festival e poi usarla nei pagamenti dei drinks (capirete bene le file chilometriche per entrambe le necessità) –, oltre che diverse aree relax, tra cui un tappeto d'erba finta con svariati puff e cuscini-materasso. Ottime anche le soluzioni bus per i rientri, numerose e frequenti, che di fatto hanno scongiurato l'ipotetico rischio di un sovraffollamento claustrofobico.

 

Ma come suona, davvero, questo Primavera Sound Festival? Partiamo dalle note dolenti, perché di stonato c'è stato (meglio, ci sarebbe stato) ben poco: nessun ingresso libero per i concerti di Sufjan Stevens e DM Stith; per vedere i due grandi cantautori americani, infatti, il Primavera Festival ha escogitato un vero e proprio meccanismo infernale di prenotazioni e sorteggi. In poche parole, i due si sono esibiti all'interno dell'Auditorium, invero come altri illustri colleghi, ma seguendo una misura speciale che prevedeva prima una registrazione via web nel portale ufficiale del Festival, creando un account e pagando un versamento minimo di dieci euro, per poi aspettare l'esito di un sorteggio che estraeva un numero limitato di spettatori tra i partecipanti. Una volta "vinta" l'estrazione, per ogni prenotazione venivano addebitati due euro ulteriori all'account registrato, tenendo pure conto del fatto che ogni persona (ogni account registrato quindi) poteva richiedere un massimo di due prenotazioni per concerto. Il rischio di non venire estratti o di esserlo per metà, vista la condizionale sfavorevole alle comitive d'amici, ha costretto molti (me incluso) a rinunciare, malincuore, ai due grandi concerti; una scelta di comodo, certo, ma per certi versi forzata.

 

Superata la prima forte, e sostanzialmente unica, delusione, si ha avuto subito il tempo di rifarsi alla grande con la ricca offerta musicale del Festival.

 

- Primo giorno

Si parte con gli Of Montreal [Video] per entrare nel vivo della Primavera, considerato l'inizio ufficiale della rassegna già dal 13 Maggio a La Ciutat e dal 25 al Poble Espanyol. E si parte discretamente: tanto circo e cazzeggio, allegria e pomposità barocca per un ingresso tutt'altro che in punta di piedi; scenografia e costumi fanno da padrone, laddove il vero intrattenimento nei pezzi degli americani si palesa soprattutto nei siparietti demenziali che accompagnano l'intera esibizione, per i quali si passa di getto da un burlesque super deformed (passatemi le espressioni, tra "pisellate in faccia" e "soffocamenti di tette") a un wrestling stile power ranger tanto imbecille quanto eccessivo e a tratti scocciante; musicalmente le cose vanno un po' meglio, con l'istrionico Barnes e soci che strimpellano il loro pop sbarazzino sfocato di riff psichedelici e ritmiche funky. Nel complesso uno spettacolo carino, simpatica apertura (divertente sarebbe troppo) per rompere il ghiaccio.

 

E' il turno di Glasser [Video] che cala il sole. Luci rosse soffuse, tanta atmosfera ma poco carattere e mordente. Momenti di intensità ci sono, tra cui la prima "Apply" e in generale i pochi altri pezzi in cui il compagno aumentava i giri del motore mettendosi alle percussioni (più che altro un singolo tom gigante). Il resto, tra calma piatta al synth e voce un filo deboluccia, scorre via senza lasciare traccia.

 

Ma il buio pesto della notte scende con i Grinderman [Video]. Veri e propri arieti da battaglia, al solito nei live, inarrestabili al limite dell'overdose di cocaina; in particolare Cave ed Ellis sembravano vivere una seconda giovinezza, il primo tanto da mandare al tappeto con uno sgambetto più o meno volontario il geniale violinista dei Dirty Three, ormai suo braccio destro anche nelle colonne sonore ("The Road", "The Assassination of Jesse James By The Coward Robert Ford"). Lo spettacolo visivo è coordinato dai continui spostamenti di Cave destra-sinistra sul palco e avanti-indietro col pubblico, che a sua volta l'ha issato un paio di volte, e scandito sul piano emotivo dalla cavalcata sporca di "No Pussy Blues", l'opener al cardiopalma per pause e ripartenze "Mickey Mouse And The Goodbye Man" e soprattutto l'anti-torchsong "When My Baby Comes", che di luminoso ha ben poco. Questi i pezzi di spicco di un'esibizione ferina e al tempo stesso elegante, madida di sudore (la fronte di Nick era qualcosa di indescrivibile) e davvero piena di vita.

 

E quindi tocca a Caribou [Video] sublimare le ormai stanche vibrazioni notturne in una delle esibizioni più coinvolgenti e danceable dell'intero Festival. Un lavoro eccezionale di remix sui suoi pezzi, allungati per l'occasione in forme house fino all'immersione totale in tempistiche beach-disco. Apre il concerto "Kaili", quasi spirituale nell'intonazione mistica e nel gioco di luci, continua alla grande "Leave House" con quei battiti quasi infiniti delle percussioni, e chiudono col botto "Sun", liquidissima e quasi palpabile nell'interminabile esecuzione, e "Odessa", singolo dorato di Caribou e sempre grande giostra d'emozioni per il pubblico.

 

Si conclude così la mia prima giornata, breve (non quanto la terza) ma intensa (non quanto la seconda), assordante e romantica, danzereccia e spirituale, e quello che volete voi...

 

- Secondo Giorno

Altro giro, altra corsa, il Festival entra nel vivo dell'interesse con uno degli esordi più attesi del momento: James Blake [Video]. Il giovane dubstepper si presenta sul palco da perfetto british good-boy, tra mezzi sorrisi d'imbarazzo e look semplice ma efficace (pantaloni scuri, camicia blu e ray-ban à la Blues Brothers). L'esibizione, meglio dirlo subito, si è rivelata appena discreta, ma questo non per demeriti di Blake. Innanzitutto chi si aspettava di ballare – vi assicuro una parte non insignificante di pubblico – è rimasto ovviamente deluso dall'esibizione, come testimoniano un po' di rientri anticipati; non solo, anche buona parte di coloro che non se ne sono andati ha rovinato non poco il concerto perché troppo incline alla chiacchiera e all'applauso facile (mia fissazione da sempre, lo ammetto); l'orario del concerto, poi, fissato per le 20.30, non ha aiutato affatto, desisamente troppo presto (letteralmente, il cielo era ancora sfumato d'azzurro) per uno spettacolo d'atmosfera come il suo, così come il luogo in sè, il palco di Pitchfork: gli effetti particolarissimi, ormai noti, di pause e ripartenze, asimmetrie vocali e tempi frammentati avevano infatti bisogno di un ambiente chiuso, dove il suono non poteva disperdersi e gli echi e i rimbombi dei bassi riuscivano a vibrare in maniera più compatta e duratura; infine, la sovrapposizione con un altro concerto, quello dei chiassosissimi Dan Melchior Und Das Menace, unico momento in quasi tutto il Festival in cui la contemporaneità di più concerti si è fatta sentire e ha dato qualche fastidio. E tutto questo è un peccato, perché l'esibizione in sè non era affatto male, ovattata e smorzata fin dall'iniziale "Unluck", minimale negli elementi e convincente nelle esecuzioni – con "The Wilhelm Scream" tra i momenti di spicco [Video] – priva di trucco eccessivo e anzi molto solida e di sostanza.

 

Neanche il tempo di meditare un attimo su quanto appena visto che già mi ritrovo a correre verso il lontanissimo palco Llevant (quello che ospiterà poi la finale di Champions) per cercare di vedere l'inizio, più o meno, del concerto dei National [Video]. E' questo l'unico caso che vi dicevo in cui ho trovato davvero poco pratica la scelta organizzativa per "dove e quando" dei due concerti; è stata infatti molto penalizzante la decisione di far coincidere il primo quarto d'ora dei National con l'ultimo di Blake, in due posti, peraltro, completamente opposti per posizione. L'esodo da un concerto all'altro non ha fatto altro che allungare i tempi dimezzando definitivamente quelli dei rispettivi concerti. Personalmente ho deciso di andarmene da James Blake un quarto d'ora prima (i pezzi più interessanti li aveva già fatti) correndo come un matto e slogandomi svariate spalle (avevo anche lo zaino per il ricambio, of course) pur di arrivare in tempo all'altro concerto, in realtà anche solo per prendere un buon posto in piedi. Fatica sprecata perché, pur nella sua impressionante capienza, al Llevant – un palco gigantesco, che ospitava forse il maggior numero di persone in tutto il Festival – era già arrivata una moltitudine impressionante di persone da ben prima, per le quali mi sono dovuto accontentare di un orrido posto molto laterale e lontano. L'unico concerto che ho visto davvero da lontano, e anche quello che rimpiango di più visto poi lo spessore dell'esibizione. Un Berninger in gran forma apre il concerto (il mio, perlomeno) con una "Anyone's Ghost" splendida nei climax batteristici di Devendorf (che live catturano come non mai), e nel ritornello di "Didn't want to be your ghost / didn't want to be anyone's ghost", veramente da brividi nell'eco che ha inondato l'intero spazio portuale. Ma non solo, anche "Sorrow" e "Bloodbuzz Ohio" da "High Violet" (per forza di cose l'album da cui hanno attinto di più), "Mistaken For Strangers" e "Squalor Victoria" – quest'ultima di un'intensità pazzesca nel richiamo degli archi, nel cantato quasi mantrico, placido e senza increspature (tipico di Berninger), così come nelle marcia para-militare scandita a quattro mani dalla batteria e dal pianoforte – hanno reso davvero grande, magico direi, lo spettacolo messo in piedi dalla band dell'Ohio, sicuramente uno degli apici in assoluto dell'intero Festival.

 

Recuperate le forze, e stavolta con qualche oretta di pausa ristoratrice nel mezzo, prendo posto lentamente sotto il palco di un'altra esibizione d'eccezione: quella dei Low [Video]. L'atmosfera è quella giusta, sono le 23 passate, tonalità sempre più scure fanno da sfondo a un cielo starless and bible black, e non tira un filo di vento. Poi, molto più semplicemente di quanto si possa immaginare, i Low salgono sul palco dell'ATP uno dopo l'altro e, giusto il tempo per Sparhawk di dire "This next song is about the spanish revolution", subito alzano gli scudi emotivi con "Nothing But Heart". Una nenia semplice quanto lunga (quasi infinita) e devastante, splendida apertura a quella che sarà una delle performance più toccanti, densa di significati, schieramenti sociali e impegni privatissimi; un slow-show ipnotico e povero di parole, che raccoglie qua e là dal nuovo ("Try to Sleep" [Video] e il suo bellissimo gioco di luci violette e vapori dal basso) e che non disdegna anche il vecchio ("Silver Rider" [Video] da "The Great Destoyer"). Un concerto così ammaliante da sembrare interminabile, talmente dilatati sono i sensi e la mente, eppure troppo breve per concludersi dopo solo un'ora (tempo semi-fisso per tutti concerti) con un bellissimo messaggio confidenziale sempre per bocca di Sparhawk: "Your family is forever. Forever".

 

Dalla quiete alla tempesta il passo è breve: tocca a Kode9 [Video] scaldare la notte, in un dj-set davvero speciale. Non si tratta quindi di un double Kode9-Burial, come suggerisce in inganno il programma, ma di un mega-remix del primo sui brani del collega. Dopo un inizio più trip che danceable, l'opera magna si svela presto e il talentuoso dj arroventa la scena con una sequenza ininterrotta di pezzi bomba, tra cui spiccano "Archangel", "You Hurt Me" e "Distant Lights" ma anche le ultime "Stolen Dog" e "Street Halo" (quest'ultima davvero orgasmica da ballare). Nel complesso uno spettacolo bello, in una cornice di pubblico (la delizia femminea ha fatto la differenza) e di atmosfera a notte fonda veramente coinvolgente, sfibrante invero, ma notevole.

 

Ormai punto di convergenze elettroniche, il palco Pitchfork ospita in successione anche il talento ormai emerso di Jamie XX, noto ai più per l'ottimo lavoro al sampler nella sua band, appunto gli XX (all'esordio l'anno scorso), e per le collaborazioni con svariati artisti (l'ultima con Gil Scott-Heron, ma anche remix di Glasser, Adele...). Difficile da inquadrare, soprattutto per la mancanza di materiale vero e proprio su LP, Jamie incanta letteralmente la scena con una serie di remix che vanno dal dubstep all'house passando per l'IDM e il wonky... insomma, un po' di tutto, ma fatto con classe. Non ci si ferma un minuto, tutto il pubblico sembra formare una massa unica in continuo movimento, culi e pacchi e braccia che si sfiorano e si muovono in completa sincronia. Difficile da spiegare, un'estasi corporea degna dei migliori dj-set, i cui momenti di spicco sono pressocché impossibili da individuare perché sono troppi (ma "Beat For" e "Far Nearer" sono sicuramente tra questi) o anche solo perché non si avrebbe il tempo di riflettere. Il ragazzo ha il futuro in tasca, gli basta metterlo nero su bianco.

 

Finita l'adrenalina, testa e corpo reclamano a gran voce un letto. Il secondo giorno è passato senza accorgersi che è già terzo...

 

-Terzo Giorno

Il nuovo giorno si apre all'insegna dell'attesa: nel pomeriggio lunghe file all'ingresso dell'Auditorium per chi, come me, non aveva prenotato il posto per il concerto di John Cale [Video]. Quasi una corsa ad ostacoli, giochi senza frontiere docet [Video], ci si mette in coda e si aspetta pazienti il proprio turno, nella speranza di una buona capienza interna. Misura confermata, poi, l'Auditorium si presenta spazioso e con poltroncine ribaltabili molto comode. E il tutto, paradossalmente, non va a beneficio dell'ex Velvet: un'esibizione certamente ben fatta, supportata da un'acustica pazzesca (tra le migliori che mi siano capitate), che regala ampi spazi al "Paris 1919" che fu, ma che giocoforza risulta anche vecchiotta e fuori dal contesto del Festival. Che poi vuol dire tutto e nulla, anche in un manifestazione indie-rock/electro del genere Cale rimane un ospite illustre e di grande rispetto; eppure le sensazioni, a pelle, rimangono quelle di uno spettacolo con qualche ragnatela di troppo, senza dubbio orchestrato alla perfezione (l'iniziale "Child's Christmas In Wales" tanto per dirne una), ma invero un po' attempato e a tratti pure soporifero... ed ecco che le poltroncine fanno il loro lavoro...

 

Ormai con l'odore della Champions League nell'aria mi affaccio per l'ultima volta al palco del San Miguel in attesa dell'ultimo concerto del mio Festival, conscio di irripetibili e irrinunciabili festeggiamenti per le calles del centro in caso di vittoria del Barcellona. E i Fleet Foxes [Video] sembrano accorgersi dell'ambiente frizzante che li circonda, tanto da assicurare per bocca di Pecknold di finire in tempo per il calcio d'inizio. Iniziano così a suonare, tra sorrisi, e brevi e simpatici scambi di battute con il pubblico: pescano un po' da tutti gli album, dalle vecchie (ma sempre stupende) "Your Protector", "White Winter Hymnal" [Video] e persino "Mykonos" alle ovvie ultime "The Shrine/An Argument" – bellissima questa nello stacco di fiato sul finire – "Sim Sala Bim", "Helplessness Blues" e quant'altro. Puntuali e precisi nelle canzoni, merito anche dell'ottima acustica, il suono arrivava pieno e pulitissimo, sintomo di grande impegno e serietà. Pur nella giovane età, quindi, si sono dimostrati dei veri professionisti, specialmente in quello che era, per stessa ammissione di Pecknold, il loro primo live-in-Spain. Promossi a pieni voti.

 

Si chiude così il mio Primavera Sound Festival, colmo come non mai di emozioni, sorprese di ogni tipo, incontri piccanti e tanta tanta tanta buona musica. Un'esperienza da ripetere, prima ancora che per il Festival in sè per vivere tutte le affascinanti contraddizioni di Barcellona, gli scorci mozzafiato di Parc Güell, la polvere e la storia e il decadente del Barri Gòtic, l'estro eclettico nelle case di Gaudì, il fiume di vita de La Rambla... e le gustosissime tapas, soprattutto quelle!

Per approfondire: http://www.primaverasound.com/

C Commenti

Ci sono 10 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

Filippo Maradei, autore, alle 0:11 del 7 giugno 2011 ha scritto:

Un paio di precisazioni: a parte due, tutti i video sono stati girati dalle mie (tremule) manine. Ecco spiegata la regia traballante! Inoltre, per il concerto di Cale e dei National ho dovuto usare la macchinetta fotografica invece che l'iPhone 4. E sì, purtroppo quando zoommavo quella dannata mandava l'audio a farsi un giro un paio di secondi; colpa della Samsung, of course.

fabfabfab alle 15:18 del 7 giugno 2011 ha scritto:

Gran bel report, complimenti per la tenacia. E gran bel evento anche, peccato quella roba tipo "gratta e vinci" per vedere Sufjan Stevens... chissà perchè poi...

bargeld alle 17:15 del 7 giugno 2011 ha scritto:

Beh grazie per averci fatto rivivere il festival con tanta personalità e partecipazione, Fil! Effettivamente la lotteria per assistere ad un live già pagato profumatamente non l'avevo ancora sentita...

gull alle 17:20 del 7 giugno 2011 ha scritto:

Speriamo non introducano la lotteria anche al ristorante

In ogni caso, io per quei due l'avrei tentata la sorte, ed in caso negativo avrei pagato uno dei fortunati vincitori qualsiasi cifra (si fa per dire!) per farmi cedere il biglietto.

Bravo Filippo, l'ho letto tutto d'un fiato il tuo report. Prima della mia completa senilità dovrò farla anch'io questa esperienza (non di scrivere un report, non ci penso proprio - troppa fatica, ma di vivere in prima persona un evento del genere).

salvatore alle 17:22 del 7 giugno 2011 ha scritto:

Grande Fil!!!! Ma non manca un gruppo?

Filippo Maradei, autore, alle 17:34 del 7 giugno 2011 ha scritto:

Eh sì Salvo: purtroppo i Belle stavano quasi in contemporanea coi Low. O l'uno o l'altro.

salvatore alle 17:45 del 7 giugno 2011 ha scritto:

Bene ti perdono, ma adesso, per ripicca, vado a cancellare things we lost in the fire dall I pod...

hiperwlt alle 17:57 del 7 giugno 2011 ha scritto:

tanta invidia e anche tanti complimenti per il report, Fil: davvero completo e accattivante! solo due cose non mi sono piaciute: che ti sei perso la prima parte del concerto dei national e... è tuo quel paio di ray-ban verdi? ehehe

target alle 18:12 del 23 giugno 2011 ha scritto:

Ma davvero Glasser aveva una voce deboluccia? Il video linkato sembra mostrarla in forma! Contento per le buone impressione jamiexxiane e soprattutto nationalliane: li attendo al varco ferrarese. Tiratina d'orecchie per esserti perso i Pulp, anche se capisco che possano calarti poco per motivi generazionali... Sontuoso report, con video di ottima qualità!

Filippo Maradei, autore, alle 19:01 del 23 giugno 2011 ha scritto:

RE:

Infatti Fra', giusto la prima "Apply": dopodiché s'è come sgonfiata.