R Recensione

9/10

The Sound

From The Lions Mouth

Se, parlando degli albori del post punk britannico, subito pensate ai Joy Division e immediatamente dopo si aggiungono i nomi di PIL, Echo And The Bunnymen, Bauhaus, Psychedelic Furs, Siouxsie And The Banshees, Cure, ma da questa lista ideale restano fuori i Sound, allora, forse, alcune delle vostre più profonde convinzioni su uno dei momenti maggiormente fecondi e creativi  della musica rock dovrebbero essere attentamente riconsiderate. E in effetti Adrian Borland (perché è lui la vera essenza dei Sound) non ha mai avuto, inspiegabilmente e ingiustamente, la notorietà e la considerazione, sia di pubblico che di critica, che ha invece accompagnato le altre band sopracitate.

Certamente l’impatto live dei Sound non fu sempre di qualità eccelsa, penalizzato forse dal fatto che Adrian, diviso fra chitarra e cantato, non sempre riusciva a risultare un frontman carismatico; la sua stessa immagine fisica, un ragazzo paffutello,  dai tratti del  volto perennemente adolescenziali, non si sposava sicuramente con i canoni dell’iconografia dark, eppure i Sound, all’inizio degli anni ’80, pubblicarono due album bellissimi, fra i momenti più alti che il nuovo rock inglese abbia mai prodotto, due pietre miliari del post punk che possono ancora oggi riservare enormi momenti di piacere auditivo.

La storia inizia con gli Outsiders, gruppo punk londinese di buone speranze che fu fra i primi a tentare la via dell’autopruduzione, nel 1977, sotto la guida di un giovanissimo ma determinato Adrian Borland; restano di quest’avventura sfortunata un pugno di tracce di già fanno intravedere i possibili sviluppi futuri. La svolta avviene con il cambio di nome, virando l’estetica musicale in direzione post punk e mettendo in evidenza le trame delle tastiere le quali diventano, fin da subito, cifra stilistica irrinunciabile del nuovo approccio musicale dei Sound. Sotto questo nome, nel 1980, esce l’album di esordio, Jeopardy; opera nella quale si intrecciano reminiscenze punk (in Heartland, Missiles, Heyday), lucide traiettorie dark (I Can’t Escape Myself, Hour Of Need, Unwritten Law), squarci pop-psichedelici (Jeopardy , Resistance) sempre sostenuti dalla calda e sofferta voce di Borland. Un album già maturo e che inserisce di diritto i Sound fra i gruppi più significativi della new wave inglese.

L’anno successivo viene pubblicato il secondo atto del gruppo londinese e, come il precedente, From The Lions Mouth esce per l’etichetta Korova (la stessa per la quale incidono Echo And The Bunnymen). Già la copertina ci fa capire che qualcosa è cambiato: non più l’espressionismo costruttivista black & white di Jeopardy, ma il neoclassicismo vittoriano del pittore inglese Briton Riviere (seconda metà ‘800), virato sui toni del marrone, del giallo e dell’arancione, che ci mostra il profeta Daniele nell’atto di affrontare i leoni (una metafora per i non ottimi rapporti con la critica musicale?).

Musicalmente il disco, pur presentando la stessa miscela sonora del primo lavoro, evidenzia notevoli cambiamenti nella  combinazione alchemica dei diversi elementi. Il punk è poco più di un ricordo, più sotterraneo approccio che sfrontata evidenza; le inquietudini dark/post punk divengono, se possibile, ancora più dolorose e struggenti strettamente avvolte da una ricerca melodica che esalta, rispetto a Jeopardy, il lato più psichedelico e (perché no) pop dei Sound anche grazie al lavoro in sede di produzione di Hugh Jones (già con i Bunnymen di Heaven Up Here). In definitiva un album più lirico e, contemporaneamente, più malinconico, nel quale è la tristezza che prevale sulla rabbia: potremmo quasi dire che From The Lions Mouth sta a Jeopardy come Closer, dei Joy Division, sta a Unknown Pleasures.

L’incipit del disco è riservato a Winning, che fin da subito esprime la vena pop-psichedelica dei Sound con l’intreccio di basso, tastiere e di una chitarra che richiama da vicino i già citati Echo And The Bunnymen; la stessa trama si ripete nella successiva Sense Of  Purpose  anch’essa dolcemente adagiata su un tappeto pop-psichedelico che, progressivamente, trasforma la speranza iniziale di Winning (“I was going to drown then I starter swimming”) in smarrimento e incertezza (“What are we going to do? I’m asking, I’m asking you”) e poi in timore e tremore (“Are we were we want to be all wrapped up in our safety?”).

Il disco procede per coppie di brani: i due successivi - “Contact The Fact” e “Skeletons” – partono con un’allure soft-dark, basso rotolante, chitarre taglienti, voce calda e profonda, per poi virare decisamente verso sussulti psichedelici in cui tastiere e chitarre disegnano trame multicolori. I due brani successivi rappresentano il momento più introspettivo del disco, la voce di Borland in “Judgement” e “Fatal Flaw” non è mai stata così dispertamente e dolcemente dolente mentre canta il dileguarsi delle relazioni interpersonali (“sense of distance when you stand next to me”). “Possession” e “The Fire” rappresentano il momento più nervoso del disco: il basso pulsa e la chitarra, specialmente nel secondo brano, richiama le atmosfere di Jeopardy e le origini punk dei Sound. Si tratta però di una breve parentesi perché la chiusura dell’album vede nuovamente prendere il sopravvento il lato intimista del gruppo. Se l’inizio era debitore ai Bunnymen il finale è decisamente un omaggio ai Joy Division: atmosfere malinconiche, quasi plumbee, tastiere marmoree e un Borland che prima omaggia la memoria di Ian Curtis (“you showed me that silente can speak louder than words” – Silent Air) e poi chiude il disco con la fiduciosa profezia del prossimo avvento di una nuova età “oscura” (“And here it comes, here it comes, a new dark age  here it comes…” – New Dark Age).

Ma Borland sfortunatamente non è stato un buon profeta. In realtà il post punk stava andando incontro ad un declino che si sarebbe consumato fra il 1982 e il 1983: la fine un po’ ingloriosa dei Bauhaus con Burning From Inside, la crisi dei Cure dopo il capolavoro Pornography, la svolta pop di Siouxsie And The Banshees (A Kiss in the dreamhouse) e dei Bunnymen (Ocean Rain) e la piega preoccupantemente americana degli Psychedelic Furs segnano questo passaggio nel quale restano invischiati anche i Sound. Negli anni successivi escono ancora tre album di Borland e soci che, pur con momenti emozionanti e brani intensi, non riescono a ripetere i fasti dei primi due dischi e chiudono la loro corriera alla fine degli eighties sempre più messi da parte e trascurati dalla critica. È la stessa colpevole dimenticanza che accompagna, il decennio successivo, la carriera solista di Borland, ricca di splendide canzoni, di indomita coerenza espressiva, di grande capacità di emozionare in dischi che si fanno sempre più introspettivi e minimali, fino a ridursi a sola voce e chitarra; è la stessa indifferenza che accoglie, alla fine del millennio, la notizia della morte per suicidio dell’ex leader dei Sound.

Questa recensione non può pertanto concludersi se non con l'auspicio che, in una fase della storia della musica che sta riscoprendo il mito di Ian Curtis (si veda il fenomeno del revival new wave o lo splendido film “Control” di Corbjin), si dia anche il giusto riconoscimento all’opera di  Adrian Borland che del post punk inglese ha rappresentato una delle pagine più intense, vere e sfortunate.

V Voti

Voto degli utenti: 8,5/10 in media su 14 voti.
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loson 9/10
target 8/10
4AS 9/10
REBBY 8,5/10
layne74 9,5/10
Cas 9/10

C Commenti

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DonJunio (ha votato 8 questo disco) alle 1:56 del 19 gennaio 2009 ha scritto:

E' da parecchio che non li metto sul piatto. Lancinanti come i Joy Division ( si senta "Contact the fact"), con intriganti aperture melodiche alla Echo & The Bunnymen, ma forse mai completamente in possesso di una cifra stilistica propria e riconoscibile. A parte ovviamente l'immortale "I can't escape myself" del precedente album, uno degli apici della nuova onda. Toccanti e immeritatamente sfortunati, comunque sia. Bella recensione.

target (ha votato 8 questo disco) alle 11:25 del 19 gennaio 2009 ha scritto:

D'accordo con don (in versione anglofila!). Qui si sente quanto i Joy Division siano stati sentiti fin da subito come maestri, senza che nei discepoli venisse meno il sangue dell'autenticità (ché tutto sommato, al di là delle sonorità, era questa la lezione di curtis & co). Disco bellissimo, in ogni caso, anche se minore di Jeopardy.

loson (ha votato 9 questo disco) alle 19:41 del 19 gennaio 2009 ha scritto:

Il mio preferito dei Sound, nonchè capolavoro new wave a tutto tondo. Bellissima recensione.

swansong (ha votato 9 questo disco) alle 12:48 del 20 gennaio 2009 ha scritto:

Grande artista!

Ottimo e sottostimato gruppo i Sound. Hanno sicuramente raccolto molto meno di quello che meritavano ed è un peccato perchè alla loro fonte si sono ispirati moltissimi gruppi del revival post punk di metà ottanta. Io ci sento qualcosa anche nei primi U2 (perdonatemi l'accostamento ora blasfemo...) Per me Jeopardy e questo sono di pari importanza artistica. Forse quest'ultimo un pelo più introspettivo, e quindi di mio maggior gradimento, ma poca roba...

P.S. a proposito di U2: scusate l'OT, ma avete ascoltato l'obbrobrio inqualificabile dell'ultimo singolo? Da vomitare!

benoitbrisefer, autore, alle 15:42 del 20 gennaio 2009 ha scritto:

addenda

Assolutamente d'accordo per quanto concerne l'influenza dei Sound (ma mettiamoci pure Joy Division - a cui è dedicata A day without me - e i Bunnymen) sui primi due dischi degli U2. Per quanto riguarda il confronto fra i primi due album dei Sound, al di là dell'indubbia differenza "umorale", sono a mio avviso da mettere musicalmente sullo stesso livello e se, da parte mia, vi è una lieve predilizione per From The Lions Mouth ciò è dovuto a motivi strettamente affettivi e di carattere autobiografico.

ozzy(d) (ha votato 7 questo disco) alle 20:06 del 20 gennaio 2009 ha scritto:

Bravini, ma per me non sono certo tra i giganti new wave. Un incrocio tra joy Division e echo & The bunnymen ( soprattutto per la voce ), non a caso nemmeno simon reynolds li ha considerati granché. Non a caso, non c'è un solo gruppo del revival new wave per cui puoi dire "mi ricordano i sound", mentre ciò accade anche per nomi meno celebrati, tipoi josef K.

Luca Morello (ha votato 10 questo disco) alle 16:36 del 24 gennaio 2009 ha scritto:

Sono in totale disaccordo con Gulliver. Tra l'altro come fai a dire che nessun gruppo di oggi ti ricorda i Sound? Cioè la loro influenza è palese (anche se filtrata)...

Disco leggendario...

SanteCaserio (ha votato 8 questo disco) alle 12:12 del 25 gennaio 2009 ha scritto:

Altro ascolto

fuori dai canoni del mio reparto dischi! Questo sito fa proprio bene

Dr.Paul (ha votato 8 questo disco) alle 14:17 del 25 gennaio 2009 ha scritto:

io ho conosciuto prima i sound dei joy division o dei cure o di bunnymen, grazie ad un maniaco dei sound che imperversava dalle mie parti...molti molti anni fa! bravi, molto bravi, poi pero...andando avanti mi sono accorto che c'era gente che je magnava in testa ai sound...inutile fare nomi che tutti gia conoscete! i sound...come i magazine rientrano in quelle categorie di ri-scoperte...quasi obbligatorie dopo che sei saturo di division e compagnia danzante... ma erano varie tacche indietro rispetto ad altri! bravi...ma c'era gente che era un altra camminata...

Totalblamblam (ha votato 7 questo disco) alle 13:32 del 27 gennaio 2009 ha scritto:

RE:

concordo con te incredibile

ghghhghg

gruppo discreto non di più

per me

4AS (ha votato 9 questo disco) alle 16:11 del 21 aprile 2010 ha scritto:

A me piace moltissimo, poi basta con questa pippa dei Joy Division. Sembra che in quel genere siano esistiti solo loro!

NathanAdler77 (ha votato 9 questo disco) alle 18:42 del 24 aprile 2012 ha scritto:

You showed me that silence can speak louder than words

Grandiosi, tra le migliori band dark-wave di sempre..."Winning" e "New Dark Age" hanno ben poco da invidiare ai JD, destino a dir poco cinico e baro con il povero Borland.

moonwave99 alle 15:00 del 6 dicembre 2012 ha scritto:

Disco bomba di una band di valore assoluto, che ha avuto la sfiga di non venir considerata quanto meritasse, per motivi mai ben compresi perche' la critica si e' bagnata tantissimo per prodotti molto piu' scarsi.

Per capirli appieno e' necessario l'ascolto del magnifico live "In The Hothouse" del 1985, il cui suono e' assai piu' pieno e graffiante che nei dischi a mio parere.

Circa quanto dice Reynolds beh, io credo lui sia piu' folgorato dallo sperimentalismo di tanti gruppi pure bravi ma che a me non dicono nulla, mentre non si fila di pezza ne' Borland [li cita come dozzinali a meta' libro], ne' i Chameleons ne' i Sad Lovers & Giants, solo perche' salgono sul treno dopo una data arbitraria [manco stessimo parlando dei White Lies o degli Interpol!].

Per fortuna la musica e' fatta di note, e non di libri.

moonwave99 alle 15:07 del 6 dicembre 2012 ha scritto:

P.S. se e' vero poi che dedica cellulosa ai Frankie Goes to Hollywood poi, e' quasi un bene che non li abbia nominati.