The Sound
From The Lions Mouth
Se, parlando degli albori del post punk britannico, subito pensate ai Joy Division e immediatamente dopo si aggiungono i nomi di PIL, Echo And The Bunnymen, Bauhaus, Psychedelic Furs, Siouxsie And The Banshees, Cure, ma da questa lista ideale restano fuori i Sound, allora, forse, alcune delle vostre più profonde convinzioni su uno dei momenti maggiormente fecondi e creativi della musica rock dovrebbero essere attentamente riconsiderate. E in effetti Adrian Borland (perché è lui la vera essenza dei Sound) non ha mai avuto, inspiegabilmente e ingiustamente, la notorietà e la considerazione, sia di pubblico che di critica, che ha invece accompagnato le altre band sopracitate.
Certamente l’impatto live dei Sound non fu sempre di qualità eccelsa, penalizzato forse dal fatto che Adrian, diviso fra chitarra e cantato, non sempre riusciva a risultare un frontman carismatico; la sua stessa immagine fisica, un ragazzo paffutello, dai tratti del volto perennemente adolescenziali, non si sposava sicuramente con i canoni dell’iconografia dark, eppure i Sound, all’inizio degli anni ’80, pubblicarono due album bellissimi, fra i momenti più alti che il nuovo rock inglese abbia mai prodotto, due pietre miliari del post punk che possono ancora oggi riservare enormi momenti di piacere auditivo.
La storia inizia con gli Outsiders, gruppo punk londinese di buone speranze che fu fra i primi a tentare la via dell’autopruduzione, nel 1977, sotto la guida di un giovanissimo ma determinato Adrian Borland; restano di quest’avventura sfortunata un pugno di tracce di già fanno intravedere i possibili sviluppi futuri. La svolta avviene con il cambio di nome, virando l’estetica musicale in direzione post punk e mettendo in evidenza le trame delle tastiere le quali diventano, fin da subito, cifra stilistica irrinunciabile del nuovo approccio musicale dei Sound. Sotto questo nome, nel 1980, esce l’album di esordio, Jeopardy; opera nella quale si intrecciano reminiscenze punk (in Heartland, Missiles, Heyday), lucide traiettorie dark (I Can’t Escape Myself, Hour Of Need, Unwritten Law), squarci pop-psichedelici (Jeopardy , Resistance) sempre sostenuti dalla calda e sofferta voce di Borland. Un album già maturo e che inserisce di diritto i Sound fra i gruppi più significativi della new wave inglese.
L’anno successivo viene pubblicato il secondo atto del gruppo londinese e, come il precedente, From The Lions Mouth esce per l’etichetta Korova (la stessa per la quale incidono Echo And The Bunnymen). Già la copertina ci fa capire che qualcosa è cambiato: non più l’espressionismo costruttivista black & white di Jeopardy, ma il neoclassicismo vittoriano del pittore inglese Briton Riviere (seconda metà ‘800), virato sui toni del marrone, del giallo e dell’arancione, che ci mostra il profeta Daniele nell’atto di affrontare i leoni (una metafora per i non ottimi rapporti con la critica musicale?).
Musicalmente il disco, pur presentando la stessa miscela sonora del primo lavoro, evidenzia notevoli cambiamenti nella combinazione alchemica dei diversi elementi. Il punk è poco più di un ricordo, più sotterraneo approccio che sfrontata evidenza; le inquietudini dark/post punk divengono, se possibile, ancora più dolorose e struggenti strettamente avvolte da una ricerca melodica che esalta, rispetto a Jeopardy, il lato più psichedelico e (perché no) pop dei Sound anche grazie al lavoro in sede di produzione di Hugh Jones (già con i Bunnymen di Heaven Up Here). In definitiva un album più lirico e, contemporaneamente, più malinconico, nel quale è la tristezza che prevale sulla rabbia: potremmo quasi dire che From The Lions Mouth sta a Jeopardy come Closer, dei Joy Division, sta a Unknown Pleasures.
L’incipit del disco è riservato a Winning, che fin da subito esprime la vena pop-psichedelica dei Sound con l’intreccio di basso, tastiere e di una chitarra che richiama da vicino i già citati Echo And The Bunnymen; la stessa trama si ripete nella successiva Sense Of Purpose anch’essa dolcemente adagiata su un tappeto pop-psichedelico che, progressivamente, trasforma la speranza iniziale di Winning (“I was going to drown then I starter swimming”) in smarrimento e incertezza (“What are we going to do? I’m asking, I’m asking you”) e poi in timore e tremore (“Are we were we want to be all wrapped up in our safety?”).
Il disco procede per coppie di brani: i due successivi - “Contact The Fact” e “Skeletons” – partono con un’allure soft-dark, basso rotolante, chitarre taglienti, voce calda e profonda, per poi virare decisamente verso sussulti psichedelici in cui tastiere e chitarre disegnano trame multicolori. I due brani successivi rappresentano il momento più introspettivo del disco, la voce di Borland in “Judgement” e “Fatal Flaw” non è mai stata così dispertamente e dolcemente dolente mentre canta il dileguarsi delle relazioni interpersonali (“sense of distance when you stand next to me”). “Possession” e “The Fire” rappresentano il momento più nervoso del disco: il basso pulsa e la chitarra, specialmente nel secondo brano, richiama le atmosfere di Jeopardy e le origini punk dei Sound. Si tratta però di una breve parentesi perché la chiusura dell’album vede nuovamente prendere il sopravvento il lato intimista del gruppo. Se l’inizio era debitore ai Bunnymen il finale è decisamente un omaggio ai Joy Division: atmosfere malinconiche, quasi plumbee, tastiere marmoree e un Borland che prima omaggia la memoria di Ian Curtis (“you showed me that silente can speak louder than words” – Silent Air) e poi chiude il disco con la fiduciosa profezia del prossimo avvento di una nuova età “oscura” (“And here it comes, here it comes, a new dark age here it comes…” – New Dark Age).
Ma Borland sfortunatamente non è stato un buon profeta. In realtà il post punk stava andando incontro ad un declino che si sarebbe consumato fra il 1982 e il 1983: la fine un po’ ingloriosa dei Bauhaus con Burning From Inside, la crisi dei Cure dopo il capolavoro Pornography, la svolta pop di Siouxsie And The Banshees (A Kiss in the dreamhouse) e dei Bunnymen (Ocean Rain) e la piega preoccupantemente americana degli Psychedelic Furs segnano questo passaggio nel quale restano invischiati anche i Sound. Negli anni successivi escono ancora tre album di Borland e soci che, pur con momenti emozionanti e brani intensi, non riescono a ripetere i fasti dei primi due dischi e chiudono la loro corriera alla fine degli eighties sempre più messi da parte e trascurati dalla critica. È la stessa colpevole dimenticanza che accompagna, il decennio successivo, la carriera solista di Borland, ricca di splendide canzoni, di indomita coerenza espressiva, di grande capacità di emozionare in dischi che si fanno sempre più introspettivi e minimali, fino a ridursi a sola voce e chitarra; è la stessa indifferenza che accoglie, alla fine del millennio, la notizia della morte per suicidio dell’ex leader dei Sound.
Questa recensione non può pertanto concludersi se non con l'auspicio che, in una fase della storia della musica che sta riscoprendo il mito di Ian Curtis (si veda il fenomeno del revival new wave o lo splendido film “Control” di Corbjin), si dia anche il giusto riconoscimento all’opera di Adrian Borland che del post punk inglese ha rappresentato una delle pagine più intense, vere e sfortunate.
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