La Priest
Inji
Sam Eastgate (ora Sam Dust) è un ragazzo di ventotto anni. Fino a sei anni fa era leader di una band, i Late Of The Pier, capace di fare il vuoto attorno a sé con un'opera, Fantasy Black Channel (2008), ancora oggi marziana e voracemente marchiata a fuoco dal Mito (un mito per pochi, ma era inevitabile). Nel 2010 pubblica altri due singoli sotto la medesima ragione sociale, ma dell'album non si saprà mai nulla e il progetto finisce nel congelatore. Per almeno un lustro viaggia per il mondo, creando musica per sfizio quando non a tempo perso. Ora ritrova il bandolo della matassa, si stabilisce in Galles e si ripresenta col nuovo moniker La Priest e nuovo album sottobraccio. E' per un macabro scherzo del destino se Inji (2015, Domino) esce ad appena un mese dalla scomparsa del batterista Ross Dawson per incidente stradale, ponendo così il sigillo definitivo all'esperienza LOTP (nel caso qualcuno ci sperasse ancora).
Nonostante gli anni di silenzio, Sam Dust non ha smesso di essere musicista iperbolico, schizofrenico, freak ma con eleganza, e il qui presente cd ne è prova lampante. Cd che andrebbe giudicato distanziandosi il più possibile da Fantasy Black Channel, almeno per due (ovvi) motivi. Innanzitutto FBC, nonostante la posizione preminente di Eastgate, era opera tutto sommato corale (imprescindibile poi l'apporto del producer Erol Alkan), a differenza di quest'ultima, solistica a tutti gli effetti. In secondo luogo, le strade percorse sono differenti: Inji è sì un lavoro sghembo, storto, ma fin dal primo singolo Oino s'intuisce una decisa sterzata verso electro-pop e indietronica, oltre a un'attenzione finora inedita per il groove.
Su quest'ultimo punto non si scappa: oggi per il rock è vitale rapportarsi all'r&b, esattamente come nei '90s era prioritario confrontarsi con la dance elettronica. Intendiamoci: Eastgate lo fa a modo suo, e infatti dal disco trasuda sì un certo afflato soul (l'iniziale Occasion, il districarsi gommoso di una Night Train tutta bollicine e bassi sintetici) ma trattasi di un soul bianco, robotico, vagamente hypna, piegato ai mille gingillamenti di synth modulari spesso autocostruiti. Anche quando il dancefloor è a un passo (i nove minuti di Party Zute / Learning To Love) la visione è deformata da occhiali caleidoscopici, in un affastellarsi di allucinazioni post-disco che pare di ascoltare Aphex Twin remixare i Cut Copy.
Altre costanti sono la forbitezza e la catchiness delle melodie, tanto nelle canzoni fatte e finite quanto nei bozzetti strumentali che punteggiano il percorso. Dal primo gruppo, oltre ai brani già citati, impossibile tralasciare la breve ma ariosa Mountain, o l'indimenticabile Lady's In Trouble With The Law dove chorus e pre-chorus fanno a gara a chi è più appiccicoso. Del secondo filone fa' un figurone Fabby (memorabili gli incastri di basso e chitarra pulita su nastri al contrario), ma un po' tutti gli strumentali tengono desto l'interesse con soluzioni sempre fresche: l'epica Gene Washes With New Arm, memore degli Associates più astratti; o ancora Lorry Park, tema da B-horror schizzato e vintage.
Il consiglio è però di gustare Inji nella sua interezza, godersi l'esperienza, assaporarne la vaga aura d'incompiutezza che qui è valore aggiunto. La cosa che più voglio da altri artisti è la definizione di un immaginario; c'è qualcosa di davvero importante nel dare alla gente qualcosa con cui lasciarsi trasportare ( ). Più si invecchia e più persone arrivano a definirsi troppo adulte per questo, a considerarlo sciocco. Ma io vorrei che le mie canzoni avessero un simile effetto sulla gente: incoraggiarla a lasciarsi trasportare dalla propria immaginazione.
Missione compiuta, Samuel. Ma stavolta, se puoi, non lasciarci più.
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