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R Recensione

7,5/10

Herd of Instinct

Conjure

Gli Herd Of Instinct ripartono esattamente da dove i King Crimson hanno lasciato nel 2003 con “The Power To Believe”: da quelle stesse dinamiche alterate, da quella stessa ideologia sonora che giustappone sfasamenti e congiunzioni, tenendosi alla larga da acque progressive di piccolo cabotaggio.

Rispetto al pur sorprendente album (eponimo) d’esordio, stavolta la formazione californiana sembra più a suo agio con l’alchimia skizoide che è il risultato ultimo dei suoi esperimenti di laboratorio: oltre ai ben evidenti elementi Crimsoniani (presenti tanto nelle strutture più poderose ed articolate, quanto in quelle più “ambientali”), vengono messi a fuoco scenari possibili nei quali sono rinvenibili le pulsanti stralunatezze del compianto Mick Karn, i fugaci azzardi fusion-metal dei Gordian Knot di Sean Malone, le elastiche geometrie del Trey Gunn solista, le sinestetiche visioni scaturite nel 1993 dai Porcupine Tree di "Up The Downstair" e le intuizioni post-jazz ascrivibili al Pat Metheny di “Imaginary Day”.

Si parte con Praxis e con il suo ipnotico loop pianistico, sospeso sulle nevrosi elettroniche che inquietano il panorama illuminato da un sole oscuro: le soundscape chitarristiche descrivono, insieme ad un fuggevole flauto, ardite architetture futuribili che dichiarano l’appartenenza degli Herd Of Instict ad un’etica “biotecnologica”, che fonde carne e metallo, che umanizza sistemi neurali artificiali. Brutality Of Fact è una sorta di manifesto programmatico che incorpora le fulgide prospettive che appartennero ai King Crimson di Red, senza relegarle ad un contesto di mera rievocazione storica ma dischiudendole a suggestioni fortemente manipolate dalle macchine.

Dead Leaf Echo, alterna le poliritmie di Fripp & sodali del periodo 2000-2003 ad ascese verso le asperità rocciose dei Tool, mentre Alice Krige P.1 è uno dei capisaldi di “Conjure”, capace di narrare il rapimento di un’anima, sollevata da un paesaggio urbano di una periferia industriale e trasportata – sulla voce di un flauto – verso sterminati deserti battuti dal vento in una qualche remota regione della Mongolia.

Un sottile sapore multi-etnico attraversa “Conjure”, aprendo l’intricata trama chitarristica (Mark Cook e Mike Davison, che hanno nel loro armamentario Warr guitar, chitarre elettriche e a 12 corde) e il complesso apparato ritmico (portato in vita dal poliedrico batterista Jason Spradlin) a vie di fuga verso armoniosi spazi di liberazione.

In questo senso Malise e Solitude One sono delle preziose dimostrazioni di quanto la band abbia compreso che la “costruzione della luce” non può essere realizzata con il supporto di spesse impalcature sonore, ma deve essere perseguita innalzando strutture leggere e agili.

Mother Night è un’altro di quei brani che palesano i grandi passi in avanti compiuti da una formazione che, con le radici ben salde in un progressive per nulla convenzionale e di stampo passatista, sa guardare al presente in modo contingente, conficcando melodie ammalianti (il Mellotron conduce le danze) e in prospettive oblique (gli ingarbugliati criteri ritmici).

Vargtimmen sembra spuntata fuori da una qualche piega inedita di “Outside” di David Bowie, con le sue atmosfere tenebrose e post-industrial. New Lands è invece probabilmente il brano più comunicativo di tutto “Conjure”: gli Herd Of Instinct  pur attenendosi allo spirito “cremisi” riescono a imbastire un discorso a cuore aperto con l’ascoltatore, adottando soluzioni mai avviluppate su loro stesse.

Con l’ingresso in pianta stabile nella line-up di Gayle Ellet (moog, mellotron, organo hammond, piano Rhodes, già in forze con gli sperimentatori prog Djam Karet), i tessuti sonori, anziché divenire più orpellosi o “classici”, acquisiscono trame dai disegni più arabescati e dai colori più elaborati.

The Secret Of Fire nel finale edifica una vera estasi per i sensi pur rimanendo vigorosamente immanente: un perfetto equilibrio fra ascesi e incarnazione.

Le durate dei brani raramente superano i 5 minuti, segno evidente che gli Herd Of Instinct – che in questo episodio della loro discografia ospitano Colin Edwin, dei Porcupine Tree, al basso, Joel Adair alla tromba e Bob Fisher al flauto – puntano all’affermazione della loro ammaliante arte attraverso forme di senso compiuto e di grande continenza, sebbene la loro natura resti intrinsecamente tortuosa, sofisticata e dunque riconducibile ad un genere incline ai virtuosismi.

Ma oggi, più che nel disco di esordio, il suono degli Herd Of Instinct si presta ad emanare atmosfere più inquiete, stratificate, rarefatte,  accompagnandosi a quella componente melodica che resta uno dei cardini di “Conjure”, costituendo – per il labirinto sonoro da esso rappresentato – allo stesso tempo la via di entrata, quella di uscita e il filo di Arianna.

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