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R Recensione

7/10

Julie Slick

Terroir

Questa ragazza riccioluta è un vero portento! Classe 1986, ha iniziato a suonare il basso all’età di 11 anni, fa parte del Power Trio di Adrian Belew ed è stata nelle formazioni live di Stewart Copeland e Alice Cooper. Scopriamo che oltre ad essere una bassista superlativa, è anche una compositrice di prim’ordine che non impernia la scrittura attorno al suo strumento di elezione, ma che predilige la pittura di quadri astratti dominati da una pluralità di elementi e di colori.

Il cromosoma cremisi fa ovviamente parte del suo DNA, ma è l’elettronica che prende il sopravvento in queste incombenti sinfonie minimali: in tal senso sembra aver acquisito l’insegnamento destrutturante di Pat Mastellotto, il geniale drummer a servizio dei King Crimson a partire dalla “reunion” degli Anni ’90. Già 6 in apertura rivela un microuniverso multiforme nel quale le varie componenti non virano verso il virtuosismo, ma sono semmai protese ad evocare uno smarrimento sensoriale. In Pi il gioco diventa ancora più complesso, nonostante tutto scorra con grande agilità: le intricate trame sonore di basso e chitarra e le eteree vocalizzazioni si inseguono come nella migliore tradizione Cremisi, eppure Julie Slick, sceglie di non irrobustire le strutture, preferendo architetture dalle forme leggere, in grado di piegarsi con flessibilità al passaggio del vento.

In pezzi come Kismet, Sirène e Quintal l’elettronica fa un passo indietro per lasciare esprimere il poderoso di interplay degli strumenti: ed è nell’alternanza fra prospettive acustiche e piani sequenza nervosamente elettrici, che si stabilisce il dominio di questo magnifico stato di disorientamento emozionale. Nonostante si tratti di brani nei quali la tecnica e la professionalità dei musicisti si rivela in modo massiccio, queste qualità non soverchiano né la composizione, né il fluido scorrere delle idee e del suono. Minminzemmi è un altro di quei momenti cruciali nei quali si palesa la volontà di superare qualsiasi tecnicismo e di andare direttamente al cuore dell’armonia, liberandola e permettendo ad essa di investire ogni ambito sonoro: il fraseggio di chitarra sembra figlio del Robert Smith più solare.

Accidental Incident rievoca i Battles dell’ancora sbalorditivo “Mirrored”, fornendo le coordinate di un math-rock post-moderno, ipnotico e cinematico. Skypark è un’altra gemma che fa risplendere di una futuribile luce la suggestione mediorientale che la intarsia: tra tradizione e alterazione. Even The Tide Recedes è il lungo e  disturbato brano ambient che chiude il lavoro: qui certamente è rinvenibile la lezione del Robert Fripp delle soundscapes (lo schivo vate ha anche suonato sul debutto della Slick), ma ciò che deriva risulta meno distante e pacificante: qui è il movimento che domina la valle e gli strumenti non hanno bisogno di divenire diafani per ammaliare l’ascoltatore in cerca di panorami iridescenti.

Con una ispirazione sospesa fra Mick Karn, Les Claypool e Tony Levin, la Slick dimostra di avere dalla sua un’arte raffinatissima che sa trovare soluzioni davvero strabilianti per la sua giovane età, mettendo a frutto l’enorme enorme esperienza condensata in così poco tempo. Principalmente pare aver capito quella regola aurea che quasi nessuno dei grandi talenti di uno strumento solitamente applica: le buone idee non sopravvivono all’ostentazione ostinata della propria bravura. Cosa semplice finché si vuole, ma raramente messa in pratica: quanti dischi solisti di signori musicisti riescono a prescindere dalla magniloquenza e dall’esibizione della propria perizia?

Gli ospiti, anche in questo secondo opus, non mancano di certo: Pat Mastellotto, Marco Minnemann, Steve Ball, Adrian Belew (of course), David Torn e altri ancora. Alla Signorina Julie dunque il merito di aver saputo orchestrare i vari contributi senza perdersi nell’ossequiosità a cui potevano indurre nomi così altisonanti.

Tensione, rarefazione, fusione, dinamica, pulsazione, invenzione, interazione: tutto ciò confluisce e innerva “Terroir”, un lavoro che, seppur lontano dall’essere loquace e comunicativo (non c’é canto e i brani sono tutti propensi alla sfida aurale), sa sedurre con un’arte davvero mesmerica. Una delle più grandi sorprese del 2012.

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