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R Recensione

8/10

Rome

Die Æsthetik Der Herrschaftsfreiheit, Vol.I-II-III

La decisione di Jerome Reuter di realizzare un “lavoro assoluto” che conciliasse le aspirazioni di storico (o sarebbe meglio dire di filosofo della storia) e quelle di musicista che da sempre coerentemente porta avanti, è stata alla fine, sotto molti aspetti, una scelta obbligata. L’opportunità è offerta da un lungo periodo di studio del grande romanzo autobiografico di Peter Weiss intitolato, appunto, “L’Estetica della Resistenza” (1975-1981): questa è una delle opere più significative del poliedrico artista che è passato, nel corso delle peregrinazioni della propria vita, dalla pittura alla poesia, dai saggi biografici e storici, alla scrittura per il cinema e per il teatro, avendo sempre come priorità la condanna dei totalitarismi (aveva 20 anni nel 1936 ed era un intellettuale ebreo in Germania...), del colonialismo e di ogni forma di razzismo. Nelle mani, nel cuore e nel cervello di Reuter, “L’Estetica della Resistenza” diventa un lavoro altamente concettuale di cui viene mantenuta la divisione in tre parti (la prima limitatissima edizione uscita all’interno di un unico cofanetto comprensivo di tre imponenti libri e dei tre cd è andata subito esaurita ed è stata dunque sostituita da tre digipack venduti separatamente ma senza compromissione della parte musicale, arricchiti comunque con sostanziosi booklet, ovviamente un po’ ridotti nella parte grafica): abbiamo dunque 36 tracce divise in tre dischi, "A Cross of Wheat", "A Cross of Fire" e "A Cross of Flowers". Vorrei che non vi fosse dubbio alcuno: Jerome Reuter è uno dei personaggi più cruciali della recente storia musicale e trascurare il suo apporto significa consegnare all’oblio importanti pagine di una cronologia che invece consentono di stabilire una connessione fra il presente ed il passato.

L’idea iniziale di affrontare questo testo è nata mentre Reuter era impegnato nelle ricerche per “Flowers From Exile” del 2009 (basato sugli avvenimenti della guerra civile spagnola), poi proseguito nel successivo “Nos Chants Perdus” (2010): ancora insoddisfatto rispetto all’idea di aver dato completamente voce alle trame di una Storia che è diventata parte integrante della sua vita come artista ma principalmente come uomo, Jerome Reuter ha sentito l’urgenza, il bisogno di portare a compimento, per quanto possibile e con uno sforzo estremo il materiale raccolto, riallacciando le i legami chimici di significati che rischiavano di perdere coesione. Si è preso più tempo che in passato e ciò gli ha permesso di andare oltre i confini fino a quel momento calpestati, trovando la forza e la volontà di dare un focus definitivamente politico al viaggio intrapreso, rinsaldando il vincolo tra musica, letteratura e storia. Di certo inquadrando in un contesto neo-folk l’opera a nome Rome, si corre il rischio di trarre frettolose conclusioni su eventuali prospettive ideologiche che si celano dietro ad essa: approfondendo il carattere di Jerome Reuter, leggendo le interviste e le sue dichiarazioni, e più che altro discendendo nel cuore vivo delle sue liriche, si comprende quanto sbagliato potrebbe essere collocare aprioristicamente dal punto di vista dottrinale l’orientamento dell’artista. Sicuramente dimostra di essere un sostenitore dell’autodeterminazione e un cantore dell’epica della libertà, che non si richiama a nessun immaginario prefabbricato e che, nonostante tutto, non desidera che il suo corpus musicale venga letto e accolto soltanto con l’aggettivo di “politico”.

La cospicua parte spoken word del lavoro non è stata tradotta dal tedesco ma è lasciata alla forza evocativa di tale lingua: il cantato è invece interamente in inglese. Musicalmente non si apprezzano sostanziali mutamenti nel linguaggio espressivo di Reuter: lui stesso si è dichiarato esserne consapevole, saldamente convinto che per la riuscita di un’opera così impegnativa, bisognava affidarsi ad una modalità sonora già ampiamente consolidata. In questo senso dunque “Die Æsthetik Der Herrschaftsfreiheit” non può essere considerato come un “album” dal carattere spiccatamente sperimentale. Nell’immane narrare che esso propone, tuttavia i tre volumi paiono piuttosto differenti fra loro, come se in fase di scrittura Reuter avesse già in mano il piano di distribuzione delle differenti ispirazioni. Laddove in "A Cross of Wheat" sembrano raggruppate composizioni più cupe e marziali (rese ancora più vivide dall’incorporazione di discorsi radiofonici di varia provenienza e da un uso più ossessivo delle percussioni e dei riverberi vocali), tra cui spiccano The Angry Brigade, To Teach Obedience, The Pyre Glade, The Merchant Fleet (davvero toccante), in "A Cross of Fire" prevalgono brani dall’impatto acustico (Seeds Of Liberation, To Each His Storm, Little Rebel Mine, sono fra i momenti più commoventi fra quelli usciti dalla penna del musicista lussemburghese) o comunque dall’afflato atmosferico (l’ambient lo-fi dell’iniziale di The Brute Engine o il mood crepuscolare della conclusiva A Cross of Fire). "A Cross of Flowers", pare invece porsi come una sintesi fra i due capitoli che l’hanno preceduto, ma il suono è, se possibile ancora più cristallino e perfetto rispetto a "A Cross of Fire": in esso risultano rimarchevoli  tracce come Dawn And The Darkest Hour, All For Naught, la magnifica You Threw It At Me Like Stars (che ricorda i percorso degli affini Piano Magic di quell’altra anima sensibile che risponde al nome di Glen Johnson), la dolente Ballots and Bullets.

La voce di Reuter risulta sempre suggestiva pur nel suo ricalcare le tonalità di Andrew Eldritch dei The Sisters of Mercy, ma ciò non deve indurre ad una rapida (per quanto impossibile) omologazione sonora, essendo ben più estese le fonti d’ispirazione da cui Jerome Reuter trae la sua esperienza: il songwriting di Leonard Cohen, l’ombrosità di Scott Walker, certamente l’impostazione sperimentale dei Death In June, il David Bowie delle ballate interiori, il dark tribal-esistenziale dei Dead Can Dance, sono solo alcuni spunti di partenza per sondare lo spirito dell’artista che si rivela dietro il nome di Rome.

Die Æsthetik Der Herrschaftsfreiheit” è un magnum opus che, è vero, non fa sconti e non ammette ascolti distratti: e i tre volumi, per certi versi, rappresentano per Reuter quello che i film della trilogia di “Heimat” hanno rappresentato per il regista Edgar Reitz. Nonostante l’impegno in termini di attenzione, sa ripagare in un modo tale che un semplice disco “di musica” non potrebbe mai fare, restituendo all’ascoltatore un acuito senso del suo essere parte di una storia in movimento e ben più grande di lui. Certo, l’amore che ho avuto per (il “più semplice”) “Masse Mensh Material” del 2008, mi spingerebbe a consigliare coloro che sono a digiuno della vicenda musicale di Rome di non perdere quell’esperienza propedeutica. Certamente i tre volumi di  “Die Æsthetik Der Herrschaftsfreiheit” propongono materia prima in abbondanza: bisogna pertanto avere predisposizione all’approfondimento, volontà nel soffermarsi su di essa e nel dedicarle – perché no? – studio. Non è pertanto materia propriamente in linea con i dettami del nostro tempo – fagocita/fuggi/vomita – e dunque non è destinata a tutte le orecchie, perché il suo è un linguaggio rivolto a chi considera la musica come un percorso di ricerca, volto ad indagare gli strati della propria identità: lasciamo dunque alle sue scelte chi pensa che piuttosto che riservare due ore e mezza all’immersione nelle dense acque di questo lavoro, può – nello stesso arco temporale – recuperare almeno tre-quattro titoli più sulla bocca di tutti. Esiste una historia (non quella della musica: qui il riferimento è ben altro) con la quale si può decidere anche di non avere nulla a che fare: ma tale opzione relega automaticamente ad un limbo privo di prospettiva, iscritto in una storia dal respiro corto.

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Teo 8/10
REBBY 8,5/10

C Commenti

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loson (ha votato 9 questo disco) alle 1:08 del 8 febbraio 2012 ha scritto:

Il triplo "album" qui recensito è uscito nel 2011, non importa se in edizione limitata. E' un disco del 2011 e basta. Per il resto, di questo capolavoro parlavo con l'utente REBBY qualche settimana fa, qui mi limiterò a ribadire - per non dire copiaincollare - i pensieri espressi in quelle occasioni. In primis, preciso che il mio primo approccio ai Rome è stato tutt'altro che idilliaco: ascolticchiato "Confessions d'un voler d'Ames" quando uscì, ma mi piacque pochissimo e lo cestinai immediatamente. L'anno dopo - credo fosse il 2008 - sono "entrato" maggiormente nel mondo del folk marziale, ma i Rome continuavo a ignorarli. Quest'anno ho provato col triplo, giusto perchè molti su RYM ne parlavano bene, e anche perchè ho un debole per le opere megalomani und narcisiste. Manco a farlo apposta, l'ho adorato. E' forse la summa di tutta la carriera di Reuter (gli inizi più dark e "collagistici" per la Cold Meat Industry, la sampledelia mista a cantautorato marziale su "Flowers Of Exile", la dimensione cameristica e vagamente chansonnier del bellissimo "Nos Chants Perdus") e assieme il suo superamento. E' anche il suo lavoro più eterogeneo: "parlate" in tedesco a far da collante, collage post-industriali, parentesi dark ambient, cermonie tribali a mò di "Pornography" (proprio la canzone, non l'album), vecchi 78 giri di inni nazionali, riferimenti letterari a go-go... Il tutto coadiuvato da una scrittura mai così efficace, che esplora ogni sfumatura del folk gotico/marziale/apocalittico con una comunicatività e un eclettismo da paura: "Little Rebel Mine" è Johnny Cash resuscitato; "Years of Abalone" lambisce una giocosità pop alla Eels; "Petrograd Waltz" è solenne e luminosa come una ballata alla Waterboys eseguita da Leonard Cohen. Nota a margine circa la produzione: cristallina, con la voce catturata piena e mai così limpida; una produzione capace di valorizzare al massimo gli intrecci percussivi senza scadere in quelle vecchie pomposità ritmiche tardo industrial di casa CMI che, applicate ai Rome, mi pare stonino alla grande. Dal basso della mia incompetenza, mi piace pensarlo come il punto più alto di tutto il filone neo-folk contemporaneo (il quale non sembra godere di ottima salute, stando a quello che ho ascoltato in giro). Un po' stucchevole, nella recensione, il continuo gongolarsi in un elitarismo sterile, da intellettuale chiuso nella propria torre d'avorio che sputa veleno sulle masse e su chi cerca di utilizzare lo stesso approccio "analitico" nei confronti di realtà più mainstream.

skyreader, autore, alle 11:24 del 8 febbraio 2012 ha scritto:

Partiamo dal basso...

Matteo, sono sinceramente felice di condividere con te la bellezza e l'importanza di questi dischi.

Prima di poter balbettare qualcosa su questo lavoro, ho avuto bisogno non solo, ovviamente, di ascoltarlo abbondantemente, attentamente, ma anche di seguire il percorso fatto da Jerome Reuter, scorrendo alcune sue interviste e mettendomi a leggere, per forza di cose, qualcosa di Peter Weiss. Sicuramente in questi due personaggi è rinvenibile una comune caratteristica, ognuna estrinsecata in contesti differenti e con esiti differenti: il "coraggio". Quando scrivo una recensione cerco di entrare, per quanto i miei filtri culturali lo rendano possibile, nella testa e possibilmente nel cuore e nell'immaginario di chi quel disco se l'è portato dentro. E Jerome non è il tipo che alle cose, alle "storie", ci giri attorno: anzi accetta le conseguenze del suo modo di raccontare. Ti cito un breve passaggio di una intervista fatta da Reuter con quelli del sito Dagheisha.com: "La musica è un disastro di questi tempi. Non è possibile predire il futuro, spero solamente che riusciremo a vendere abbastanza copie in modo da non perdere soldi. Le persone ascoltano qualunque tipo di musica e la selezione viene effettuata a seconda di diversi gradi di giudizio. Questi elementi sono fuori dal mio controllo e non me ne curo da molti anni. Sarò grato a chi apprezzerà il mio lavoro ma se non verrà compreso andrà bene lo stesso"

Anche altrove è delineabile la figura di un artista che non gliene frega nulla di asservirsi a regole di "marketing" o di "semplificazione della propria musica" per renderla più leggibile, digeribile.

Relativamente alla data attribuibile all'album, abbiamo almeno un esempio eclatante: "In Rainbows" dei Radiohead, uscito in una edizione "fisica" limitata nel 2007, ma in "mass edition" soltanto nel gennaio 2008. Il dilemma sulla classificazione temporale sul disco non si è mai sciolto (persino molte classifiche vogliono "In Rainbows" tra i migliori dischi del 200. Io francamente non ravvedo alcun problema a considerare il triplo dei Rome un disco del 2011: anche se va specificato che davvero l'uscita di fine 2011 non solo era ultralimitata, ma non era considerabile distinta in tre unità, essendo parte di un unico cofanetto. I tre singoli volumi (ognuno con proprio titolo) sono usciti prettamente in forma separata e distribuiti nel 2012. Per questo, trattando di questa edizione, ho pensato fosse giusto attenermi a questa data. Ma se qualcuno in redazione preferisce considerarlo come un lavoro del 2011, francamente non mi crea problema alcuno. Resta comunque, al momento, un album "recente". Tuttavia così facendo Storia della Musica perderà l'opportunità di inserirlo in una lista dei "migliori album di un anno", perché quella dell 2011 è chiusa e nessuno aveva ancora sentito "Die Aesthetik...", mentre quella del 2012 avrà almeno l'onestà di non trascurare un disco così importante nell'anno in cui questo è stato reso disponibile e fruito dagli ascoltatori. Ma questo è solo il mio parere...

Mi hanno fatto sorridere le tue battute critiche sul mio approccio alla recensione: ma non con un sorriso di scherno, sia ben chiaro, e di certo perché non accetti critiche, ma perché troppo palesemente dettate da un risentimento per aver tirato in ballo, altrove e per sommi capi, una artista a te cara. Dai... solo per aver scritto, in un commento ai Crippled, le parole: "in quel di Lana", articolando una mia idea di musica... ;o) Nessuna torre d'avorio e davvero nessun veleno... Trovo che quella situazione sia stata benissimo compresa dall'utente "Metanoia70" che ha non ha posto una distinzione fra musica buona o cattiva, ma una più propriamente calzante, fra musica di ascolto e musica di intrattenimento. Il mio pensiero è leggermente diverso dal suo: io non trovo nulla di male che ci si occupi dell'aspetto sociologico della musica, ma questo non deve incrementare il valore di un'opera solo in virtù del riscontro mediatico che questa produce. E' giusto anche analizzare la "storia del marketing musicale" (perché molto del successo degli artisti più famosi al mondo è frutto di questo), ma questa non deve necessariamente far coincidere queste strategie con l'arte. Ecco, in Jerome Reuter, ho trovato un uomo, un artista, un intellettuale (spero non sia divenuto stigmatizzabile il ricorso all'immagine di questa figura), che con lucidità porta avanti un "discorso", senza essere vittima né di logiche commerciali, né della rassegnazione a non divenire "musica per le masse". In piena globalizzazione musicale, l'amalgama di confusa creatività che rende indistinte fonti di ispirazioni "originali" e prodotti finali, ci porta ad essere felici anche quando un gruppo "geniale" produce niente di più di una buona amalgama di elementi, avendo ormai interiorizzato e dunque accettato l'impossibilità di una reale, concreta, "nuova" inventiva. Jerome Reuter non ci propone questa tanto attesa "botta di nuova inventiva", essendo il suo, come detto nella recensione, un linguaggio già perfettamente collaudato e niente affatto sperimentale. Tuttavia indica una direzione, getta uno sguardo sul mondo: e questo è indiscutibilmente uno sguardo attento, profondo, che non strumentalizza le "storie", ma che le fa proprie cercando di ricordarci che "popolare" è un aggettivo che non necessariamente vuole dire "condivisibile" o "alla portata culturale media dell'individuo di un popolo", intendendo questo, il popolo, più che altro nel significato di "massa indistinta" dalle "facili pretese". No, Reuter, come Weiss, e come molti altri, ci ricordano che la musica è figlia di una questione "popolare" certamente, ma nel senso di appartenente "ad un popolo", alle sue ferite, alla sua storia, alle sue minoranze, ai risvolti differenti che questa ha antropologicamente prodotto. E la "cultura" non è solo quel fenomeno altisonante plasmato dalle mani delle società occidentali, ma anche quello storicamente osservato in quelle esperienze umane che si sono espresse secondo altre modalità, secondo altri modelli. Diego Carpitella, personaggio cardine dell'etnomusicologia italiana e mondiale, è stato un a maestro in tal senso: l'analisi del contesto nella trattazione della produzione musicale è elemento di indagine determinante. Solo l'analisi dei contesti permette di far emergere la natura dei mutamenti culturali, popolari. Perché fra "popolare" e "culturale" non vi è distinzione. Ciò che preme sul "popolare" per renderlo forzatamente distante dal "culturale", attribuendo illusoriamente al primo aggettivo un valore positivo in quanto "primigenio" mentre al secondo un valore negativo" in quanto "elaboratamente spocchioso", ecco ciò è qualcosa di artefatto, che non attiene alla realtà delle dinamiche della Storia dell'Uomo. E ciò è ad esempio ciò che prova a rendere appetibile ai più una certa musica, provando ad "inventare" di sana pianta un senso di appartenenza, che non è quello della sua storia. I contesti artistici umani posso e debbono modificare, evolversi, per quanto possibile: le pressioni che stanno dietro a queste mutazioni, spesso più di immagine che di contenuto, debbono essere oggetto di una più attenta valutazione, da parte di tutti. Con rispetto.

loson (ha votato 9 questo disco) alle 12:00 del 8 febbraio 2012 ha scritto:

RE: Partiamo dal basso...

Perdonami, ma sono sconcertato dalla lunghezza di questo post e non so da che parte cominciare. Non che poi si debba per forza cominciare. Nella mia piccola critica non c'era risentimento personale, piuttosto il fastidio per la riaffermazione ciclica di un concetto - per me obsoleto e dannoso, ma è un mio parere - che era già stato sufficientemente sviscerato nel corso della recensione. E' lo stesso concetto che si ritrova più o meno in ogni tua recensione, ragion per cui stavolta non mi sembrava il caso di ritornarci su con tanta enfasi. Cmq ok, la rece è tua e decidi tu come impostare la tua disamina. Massimo rispetto da questo punto di vista. Analisi sociologica e analisi delle strategie di marketing non coincidono affatto: sono due attività ben distinte giacché trattano di tematiche distinte, che pure possono intrecciarsi e nutrirsi a vicenda. Il riferimento alla consonanza fra opera d'arte e le dinamiche della storia dell'Uomo è interessante, anche se, ovviamente, c'è il piccolo problema di stabilire con quali criteri si può giudicare un'opera come estranea al dispiegarsi delle maglie della storia. Interviengono mica i tanto vituperati concetti di "gusto personale" o "relatività di prospettiva" o ancora quelle categorie estetiche (non dico etiche perchè non voglio assolutamente finire come Morandini XD) che fanno parte del bagaglio culturale/emotivo/personale del singolo? Sarebbe più semplice e onesto affermare che gli artisti che promuovi qui su SdM sono quelli che TU ritieni portatori di "valore positivo" e che si integrano con quello che è il TUO percorso. E' la pretesa universalistica di questa teoria a lasciarmi basito. La Storia con la maiuscola è una nostra invenzione, un blocco di creta che modelliamo all'occasione in modo da renderlo più affine alla nostra persona. La Storia con la maiuscola è il nostro alibi. Ciao.

loson (ha votato 9 questo disco) alle 12:13 del 8 febbraio 2012 ha scritto:

RE: RE: Partiamo dal basso...

Ah, sulla questione della minor visibilità in ragione dello spostamento all'annata 2011 ci avevo riflettuto anch'io dopo il mio post. In effetti un'opera così meriterebbe un po' di esposizione, visto che finora se lo sono filato in pochi. Però sulla data di pubblicazione non si scappa, dai: 'sto disco è effettivamente uscito nel 2011. Ok, ora è stato reimpacchettato e privato di gran parte della sua componente "cartacea", ma la sostanza quella resta. E' triste, lo so.

skyreader, autore, alle 14:08 del 8 febbraio 2012 ha scritto:

RE: RE: Partiamo dal basso...

Mi dispiace Matteo, ma si vede troppo che in qualche maniera sei rimasto "touché" dalla questione Lana... Sento che ti sei messo a leggere le mie recensioni, solo mosso dalla volontà di articolare una critica, alla ricerca di un appiglio. Ora ti sconcerta anche un post necessariamente un po' lungo nel quale volutamente volevo stabilire un dialogo, offrendo tematiche "altre" nelle quali speravo potessimo trovare un qualche elemento di condivisione (cercavo di smontare proprio la visione dall'alto / dal basso, cercando di riavvicinare prospettiva culturale / popolare, provando a delineare quali sono le logiche che spingono questi ambiti separati). Non ci sono riuscito, ma resto ugualmente felice che, seppur per motivi diversi, abbiamo, sia io che tu, apprezzato questo lavoro dei Rome. Ognuno di noi due, con i propri "filtri" (non siamo esenti del nostro bagaglio formativo) e i propri limiti, cercherà di arricchire questo sito, credo comunque mossi dall'unico intento di sentire il bisogno di divulgare la propria passione. Che nel mio caso, è certamente vero, cerca di manifestarsi con artisti che generalmente sono, come me, "in ricerca". Difficilmente andrò appositamente a cercarmi un disco che non mi è piaciuto affatto, per farne di mia iniziativa una disamina più approfondita di quanto magari lo è il livello musicale proposto dal suo artefice. Ma ciò mi è capitato e di certo non mi tirerò indietro se ricapiterà. Da parte mia non è mia intenzione leggere i tuoi articoli sono per trovare "falle", non è proprio questo quello mi interessa... Tanto quelle non mancano anche negli scritti di autorevoli Storici della Musica. A me interessano gli stimoli che la Musica, anche quella descritta (che facciamo noi), offre: mi piace riceverli, mi piace darli.

loson (ha votato 9 questo disco) alle 16:01 del 8 febbraio 2012 ha scritto:

RE: RE: RE: Partiamo dal basso...

Stefano, parlavo di "sconcerto" in tono ironico... Mi son dimenticato di mettere la faccina ma il senso era quello. Le tue recensioni le ho lette spesso, se vai a vedere a volte ti ho fatto anche i complimenti. Non è mia abitudine leggere qualcosa per il puro gusto di "smontarlo", ho soltanto espresso un punto di vista dopo che tu ne avevi espresso un altro. Tutto qua. L'idea dell'arte "alta" Vs. arte "bassa" mi pare sia la premessa teorico-concettuale del tuo modo d'intendere la critica musicale, non pensavo di mancarti di rispetto rilevandolo. Niente "touché", davvero.

REBBY (ha votato 8,5 questo disco) alle 9:54 del 8 febbraio 2012 ha scritto:

Si confermo, devo ringraziare il Los anche per questo triplo del 2011 in edizione limitata, che per me è una delle uscite più importanti della scorsa annata. Nelle prossime miste (ancora 5 del 2011 e poi basta eheh) ci sarà sempre una canzone tratta da quest'opera. E' un album immane, ambizioso e complicato (ci sono tre lingue, inglese, francese e tedesco, eh; ci sono tanti riferimenti storici, filosofici e letterari, eh; ci sono molti brani, in tedesco argh!, narrati non cantati, eh), che necessita di molto interesse e dedizione. Ai più "frettolosi" o "bulimici" e ai meno interessati alla poetica Rome consiglio l'ascolto a ritroso (partendo dal terzo disco), probabile che ciò faciliti la voglia di arrivare fino in fondo. Cos'altro aggiungere, dopo gli scritti di Stefano e Matteo e non avendolo ancora interiorizzato a dovere? Poco in effetti. Io sono dal 2009 (grazie alla rece di Alessandro Zabban, su queste pagine, di Flowers from exile) semplicemente folgorato dalla proposta musicale e culturale di Jerome Reuter, conosco a memoria i tre album precedenti, ritengo Jerome Reuter, senza dubbi, uno dei migliori song-writers contemporanei e sono molto felice che il Los (e forse anche Stefano) si aggiunga a me nel valorizzare il precedente Nos chants perdus, che è stato "maltrattato" da un Filippo assai "cattivello" nella recensione dedicata eheh.

ozzy(d) alle 15:03 del 8 febbraio 2012 ha scritto:

dio!

"Diego Carpitella, personaggio cardine dell'etnomusicologia italiana e mondiale"..

ozzy(d) alle 15:04 del 8 febbraio 2012 ha scritto:

a carpitella preferisco piscitella ( il prodotto della cnatera giallorossa ghghgh)

NathanAdler77 alle 17:44 del 9 febbraio 2012 ha scritto:

RE: a carpitella preferisco piscitella ( il prodotto della cnatera giallorossa ghghgh)

La cantera giallorossa fa miracoli! ghghgh

swansong alle 16:53 del 8 febbraio 2012 ha scritto:

Quale recensione meglio dei Rome, per uno scontro fra "titani"..

Eddai Matteo e Stefano, continuate vi prego! Anzi no, smettetela..dai! Vabbè, comunque sia, ai miei occhi (per la lettura) ed alle mie orecchie (per le opere che recensite), siete due grandi recensori e importanti risorse per SdM. E' un piacere leggervi anche quando vi "scannate" come due galli in un pollaio! Detto col massimo affetto per entrambi sia chiaro! Quanto al disco in questione, non conosco, ripasserò!