Rome
Die Æsthetik Der Herrschaftsfreiheit, Vol.I-II-III
La decisione di Jerome Reuter di realizzare un “lavoro assoluto” che conciliasse le aspirazioni di storico (o sarebbe meglio dire di filosofo della storia) e quelle di musicista che da sempre coerentemente porta avanti, è stata alla fine, sotto molti aspetti, una scelta obbligata. L’opportunità è offerta da un lungo periodo di studio del grande romanzo autobiografico di Peter Weiss intitolato, appunto, “L’Estetica della Resistenza” (1975-1981): questa è una delle opere più significative del poliedrico artista che è passato, nel corso delle peregrinazioni della propria vita, dalla pittura alla poesia, dai saggi biografici e storici, alla scrittura per il cinema e per il teatro, avendo sempre come priorità la condanna dei totalitarismi (aveva 20 anni nel 1936 ed era un intellettuale ebreo in Germania...), del colonialismo e di ogni forma di razzismo. Nelle mani, nel cuore e nel cervello di Reuter, “L’Estetica della Resistenza” diventa un lavoro altamente concettuale di cui viene mantenuta la divisione in tre parti (la prima limitatissima edizione uscita all’interno di un unico cofanetto comprensivo di tre imponenti libri e dei tre cd è andata subito esaurita ed è stata dunque sostituita da tre digipack venduti separatamente ma senza compromissione della parte musicale, arricchiti comunque con sostanziosi booklet, ovviamente un po’ ridotti nella parte grafica): abbiamo dunque 36 tracce divise in tre dischi, "A Cross of Wheat", "A Cross of Fire" e "A Cross of Flowers". Vorrei che non vi fosse dubbio alcuno: Jerome Reuter è uno dei personaggi più cruciali della recente storia musicale e trascurare il suo apporto significa consegnare all’oblio importanti pagine di una cronologia che invece consentono di stabilire una connessione fra il presente ed il passato.
L’idea iniziale di affrontare questo testo è nata mentre Reuter era impegnato nelle ricerche per “Flowers From Exile” del 2009 (basato sugli avvenimenti della guerra civile spagnola), poi proseguito nel successivo “Nos Chants Perdus” (2010): ancora insoddisfatto rispetto all’idea di aver dato completamente voce alle trame di una Storia che è diventata parte integrante della sua vita come artista ma principalmente come uomo, Jerome Reuter ha sentito l’urgenza, il bisogno di portare a compimento, per quanto possibile e con uno sforzo estremo il materiale raccolto, riallacciando le i legami chimici di significati che rischiavano di perdere coesione. Si è preso più tempo che in passato e ciò gli ha permesso di andare oltre i confini fino a quel momento calpestati, trovando la forza e la volontà di dare un focus definitivamente politico al viaggio intrapreso, rinsaldando il vincolo tra musica, letteratura e storia. Di certo inquadrando in un contesto neo-folk l’opera a nome Rome, si corre il rischio di trarre frettolose conclusioni su eventuali prospettive ideologiche che si celano dietro ad essa: approfondendo il carattere di Jerome Reuter, leggendo le interviste e le sue dichiarazioni, e più che altro discendendo nel cuore vivo delle sue liriche, si comprende quanto sbagliato potrebbe essere collocare aprioristicamente dal punto di vista dottrinale l’orientamento dell’artista. Sicuramente dimostra di essere un sostenitore dell’autodeterminazione e un cantore dell’epica della libertà, che non si richiama a nessun immaginario prefabbricato e che, nonostante tutto, non desidera che il suo corpus musicale venga letto e accolto soltanto con l’aggettivo di “politico”.
La cospicua parte spoken word del lavoro non è stata tradotta dal tedesco ma è lasciata alla forza evocativa di tale lingua: il cantato è invece interamente in inglese. Musicalmente non si apprezzano sostanziali mutamenti nel linguaggio espressivo di Reuter: lui stesso si è dichiarato esserne consapevole, saldamente convinto che per la riuscita di un’opera così impegnativa, bisognava affidarsi ad una modalità sonora già ampiamente consolidata. In questo senso dunque “Die Æsthetik Der Herrschaftsfreiheit” non può essere considerato come un “album” dal carattere spiccatamente sperimentale. Nell’immane narrare che esso propone, tuttavia i tre volumi paiono piuttosto differenti fra loro, come se in fase di scrittura Reuter avesse già in mano il piano di distribuzione delle differenti ispirazioni. Laddove in "A Cross of Wheat" sembrano raggruppate composizioni più cupe e marziali (rese ancora più vivide dall’incorporazione di discorsi radiofonici di varia provenienza e da un uso più ossessivo delle percussioni e dei riverberi vocali), tra cui spiccano The Angry Brigade, To Teach Obedience, The Pyre Glade, The Merchant Fleet (davvero toccante), in "A Cross of Fire" prevalgono brani dall’impatto acustico (Seeds Of Liberation, To Each His Storm, Little Rebel Mine, sono fra i momenti più commoventi fra quelli usciti dalla penna del musicista lussemburghese) o comunque dall’afflato atmosferico (l’ambient lo-fi dell’iniziale di The Brute Engine o il mood crepuscolare della conclusiva A Cross of Fire). "A Cross of Flowers", pare invece porsi come una sintesi fra i due capitoli che l’hanno preceduto, ma il suono è, se possibile ancora più cristallino e perfetto rispetto a "A Cross of Fire": in esso risultano rimarchevoli tracce come Dawn And The Darkest Hour, All For Naught, la magnifica You Threw It At Me Like Stars (che ricorda i percorso degli affini Piano Magic di quell’altra anima sensibile che risponde al nome di Glen Johnson), la dolente Ballots and Bullets.
La voce di Reuter risulta sempre suggestiva pur nel suo ricalcare le tonalità di Andrew Eldritch dei The Sisters of Mercy, ma ciò non deve indurre ad una rapida (per quanto impossibile) omologazione sonora, essendo ben più estese le fonti d’ispirazione da cui Jerome Reuter trae la sua esperienza: il songwriting di Leonard Cohen, l’ombrosità di Scott Walker, certamente l’impostazione sperimentale dei Death In June, il David Bowie delle ballate interiori, il dark tribal-esistenziale dei Dead Can Dance, sono solo alcuni spunti di partenza per sondare lo spirito dell’artista che si rivela dietro il nome di Rome.
“Die Æsthetik Der Herrschaftsfreiheit” è un magnum opus che, è vero, non fa sconti e non ammette ascolti distratti: e i tre volumi, per certi versi, rappresentano per Reuter quello che i film della trilogia di “Heimat” hanno rappresentato per il regista Edgar Reitz. Nonostante l’impegno in termini di attenzione, sa ripagare in un modo tale che un semplice disco “di musica” non potrebbe mai fare, restituendo all’ascoltatore un acuito senso del suo essere parte di una storia in movimento e ben più grande di lui. Certo, l’amore che ho avuto per (il “più semplice”) “Masse Mensh Material” del 2008, mi spingerebbe a consigliare coloro che sono a digiuno della vicenda musicale di Rome di non perdere quell’esperienza propedeutica. Certamente i tre volumi di “Die Æsthetik Der Herrschaftsfreiheit” propongono materia prima in abbondanza: bisogna pertanto avere predisposizione all’approfondimento, volontà nel soffermarsi su di essa e nel dedicarle – perché no? – studio. Non è pertanto materia propriamente in linea con i dettami del nostro tempo – fagocita/fuggi/vomita – e dunque non è destinata a tutte le orecchie, perché il suo è un linguaggio rivolto a chi considera la musica come un percorso di ricerca, volto ad indagare gli strati della propria identità: lasciamo dunque alle sue scelte chi pensa che piuttosto che riservare due ore e mezza all’immersione nelle dense acque di questo lavoro, può – nello stesso arco temporale – recuperare almeno tre-quattro titoli più sulla bocca di tutti. Esiste una historia (non quella della musica: qui il riferimento è ben altro) con la quale si può decidere anche di non avere nulla a che fare: ma tale opzione relega automaticamente ad un limbo privo di prospettiva, iscritto in una storia dal respiro corto.
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