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R Recensione

7,5/10

Barachetti / Ruggeri

White Out

Un disco lento, un disco materico, un disco difficile. “White Out”, creatura del duo formato da Luca Barachetti (ex Bancale) ed Enrico Ruggeri (ex Hogwash), è un esperimento in bilico tra gli ermetismi della poesia contemporanea e le evoluzioni della musica (post)seriale. Fondamentalmente elettronico, questo lavoro è, nei fatti, un costrutto eterogeneo che, partendo dalle ripetizioni percussive di Franco Donatoni, retrocede fino alle allucinazioni minimaliste di LaMonte Young. “White Out”, lento materico difficile, propone un percorso auditivo che combina con puntiglio ogni parola – scelta con cura filologica – alla sua corretta frequenza, generata con metodo scientifico. Dove batte la lingua del Barachetti, lì c’è Ruggeri a modular le onde senza disincanto alcuno, bensì col tocco professionale e austero d’un genetista in laboratorio.

Ma perché “White Out” è lento? È lento perché, tranne rarissime eccezioni, fa volentieri a meno del ritmo, per come lo intende la maggioranza delle persone. E perché “White Out” è materico? È materico perché la voce si fa phonè, ovvero diventa qualcosa di estraneo dal corpo che la emette, si rende autonoma, diventa oggetto vibrante nell’etere. Ma insomma, perché “White Out” è difficile? È difficile perché richiede, da parte dell’ascoltatore, un reale impegno: alle sue capacità intellettive sta la concreta possibilità di capire, di giungere ad aletheia, di svelare – letteralmente – la verità. Si potrebbe quasi affermare che il duo produttore abbia sopravvalutato il fruitore, per fiducia, per obbligo, per aristocrazia. Fatto sta che la totale assenza di periodicità nel tempo (Iannis Xenakis) eleva a potenza il trauma poetico di “Dolore bianco”, l’ossessivo ripetersi del mantra “Pulsa” fa tornare alla mente i requiem di Sylvano Bussotti e le frattaglie pianistiche cadenzate da improbabili martelli elettrici ricordano Alvin Curran, almeno finché non vanno a morire nell’atto penitenziale dell’(in)comunicato.

Con “Macula” approdiamo invece alle nere foreste vergini di Krzysztof Penderecki, con alberi vinilici e graffi seriali blu metilene; in “San Sebastiano” i due artisti bergamaschi sembrano voler sezionare la cultura popolare, il folclore (Luciano Berio), per giungere alle teorie di Mach sull’interferenza e la diffrazione; le scelte d’avanguardia dei due paiono trovare un poco di quiete con “Panda psichico” per poi fuoriuscire come GPL in “Uomo occipitale”, una traccia giocata sugli incastri glitch degli Autechre. Pur se scheletrico e asettico, il disco regala comunque sensazioni umane, come nella title-track, quando una cassa veloce si trasforma ben presto in un doping acustico, del tipo iDoser che, giocando con doppler et similia, simula esperienze binaurali. Ancor più antropomorfo è il lungo finale di “Fiume verticale”.

A mio avviso è questo il brano che, più degli altri, fa luce sulle radici ideologiche dell’intero LP di Barachetti e Ruggeri, e forse ne spiega pure l’urgenza. Fottendo ogni accademia e superando in un sol colpo Orwell, Brecht, Asimov e Pasolini, un poeta e un musicista, entrambi sperimentatori, ci stanno dicendo che siamo diventati tutti dei pesci d’acqua dolce: obbligati a seguire la corrente e, soprattutto, incapaci di vivere al di fuori del fiume. Se solo quel fiume fosse verticale, vi sarebbe almeno la speranza d’una trascendenza. E invece, nemmeno quella.

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OlioCuoreNero alle 11:51 del 22 giugno 2016 ha scritto:

Stupefacente. Non credevo Enrico Ruggeri artista tanto poliedrico.

fabfabfab alle 16:17 del 22 giugno 2016 ha scritto:

Hmm, mi sa che non è quell'Enrico Ruggeri...

OlioCuoreNero alle 13:07 del 23 giugno 2016 ha scritto:

Facevo l'idiota, chiedo scusa...